Il museo nello spazio pubblico contemporaneo. Intervista a Bart van der Heide

Nel corso dell’estate del 2021, insieme ad altri otto pensatori, creativi e professionisti nati o attivi sul territorio sudtirolese, sono stato selezionato per fare parte di Art Club Forum, un attivatore culturale ideato da Bart van Der Heide, direttore di Museion, il museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano.

Succeduto nel giugno del 2020 alla precedente direttrice, Letizia Ragaglia, van der Heide è un professionista con 19 anni di esperienza nella gestione di istituzioni culturali pubbliche, durante i quali ha ricoperto, tra gli altri, i ruoli di chief curator & head of research dello Stedelijk Museum di Amsterdam e di director & curator presso la Kunstverien di Monaco di Baviera.

Nel corso di una tre giorni di eventi intitolata Opening the Pill (curata dal gruppo di lavoro di cui faccio parte nell’iniziativa Art Club Forum) ho avuto l’opportunità di intervistarlo e fargli alcune domande sul ruolo del museo come attore nello spazio pubblico e sul senso dell’esperienza dell’Art Club Forum come acceleratore della cultura urbana del territorio in cui è inserito.

bart van der heide, museion director

 

Flavio Pintarelli: anche se non è la prima volta che ci troviamo a parlare di questi argomenti, vorrei chiederti di iniziare la conversazione inquadrando la questione del ruolo del museo come attore nello spazio pubblico. Mi piacerebbe che tu potessi raccontarmi qual è la tua visione su questo tema, ma anche provare a delineare il modo in cui questo ruolo si è evoluto nel tempo.

Bart van der Heide: lasciami dire, per iniziare, che, avendo lavorato per 19 anni in numerose istituzioni pubbliche del mondo dell’arte, questa evoluzione del ruolo del museo come attore nello spazio pubblico è qualcosa che ho vissuto da vicino. In un certo modo, è qualcosa che mi porto dentro.

Quello che ho imparato, perché l’ho vissuto nel corso della mia carriera, è che il ruolo del museo è sempre legato al modo in cui la società cambia nel corso del tempo, perché se le comunità e i loro valori cambiano, cambiano insieme a loro anche il museo e le sue funzioni.

A lungo, il ruolo del museo è stato quello di essere un tempio per le discipline umanistiche. Il luogo in cui il retaggio culturale di una comunità nazionale veniva ricercato, definito e sviluppato. Questo genere di ruolo prevedeva che il museo agisse in base a una struttura e a un’organizzazione gerarchiche molto rigide, a cui si accedeva solo attraverso un cursus honorum ben definito, che aveva come obiettivo quello di valutare l’acquisizione dell’expertise necessaria a svolgere il compito di giudicare cosa era o non era degno di entrare a far parte del museo, cosa aveva o non aveva la dignità di essere chiamato arte. Al vertice di questa gerarchia regnava, indiscussa, la figura del direttore, vero e proprio arbitro supremo dei destini della cultura e dei suoi oggetti.

La decostruzione delle discipline umanistiche durante gli anni ’60 del Novecento e lo sviluppo del pensiero post coloniale nel corso degli anni ’80 hanno cominciato a mettere in discussione la legittimità di questo ruolo.

Un processo che ha accelerato in modo considerevole nel corso dell’ultimo decennio, quando il museo è stato costretto a confrontarsi con le dinamiche di democratizzazione generate dalle possibilità di accesso e produzione d’informazione, abilitate dalle rapida e pervasiva diffusione delle piattaforme digitali.

Interrogato in modo radicale a proposito della natura costruita della propria prerogativa di decidere al posto degli altri, il museo ha dovuto cominciare a confrontarsi in un dialogo orizzontale con tutti i soggetti civici che interagiscono con esso e fanno parte del suo ecosistema, ridefinendo il proprio ruolo e compito in base all’ambiente circostante.

FP: ti interrompo per chiederti quale ruolo ha avuto la tecnologia in questa evaporazione del principio di autorevolezza del museo. In altre parole, pensi che ne sia stata causa, agente, entrambe le cose o nessuna di queste?

BvdH: dal mio punto di vista la tecnologia non ha, da sola, la forza di dare vita a un cambiamento. Al massimo può riflettere un cambiamento più profondo, creando strumenti attraverso cui esso può esprimersi. Oggi, per esempio, abbiamo strumenti digitali potentissimi per elaborare e trasmettere le opinioni delle persone, ma quasi nessuno strumento per ascoltare o imparare a farlo. Per un museo, questa situazione è molto difficile da gestire, perché si potrebbe essere portati a credere che la necessità di negoziare il proprio ruolo in modo orizzontale significhi accettare al proprio interno qualsiasi opinione che venga espressa al suo riguardo. Non è così.

Il museo resta un’organizzazione di professionisti altamente specializzati con il compito di fare ricerca, definire e sviluppare la cultura della propria comunità. Solo che questo compito e questa organizzazione devono essere negoziati e discussi di continuo nella relazione con il pubblico a cui il museo si rivolge, riflettendo al proprio interno, nella propria struttura, la trasformazione a cui questo incontro dà avvio, per dare vita nuove forme e pratiche.

FP: è da riflessioni come queste, correggimi se sbaglio, che mi sembra sia nata un’esperienza come quella di Art Club Forum. Almeno questa è l’impressione che io, partecipandovi, colgo nelle tue parole. Ho ragione?

BvdH: in parte è così. Art Club Forum nasce come tentativo di mettere alla prova il museo alla luce dei cambiamenti che mi hai chiesto di mettere a fuoco poco fa. L’idea di partenza era quella d offrire alla comunità di creativi, professionisti e pensatori sudtirolesi una piattaforma che permettesse loro di avere un impatto sulla comunità che li ha espressi. È qualcosa che il mio team e io abbiamo sviluppato e stiamo sviluppando partendo zero, senza alcuna linea guida a cui attenerci e imparando mentre lo facciamo.

Questo significa anche che il modo in cui il progetto evolve è determinato anche dal contesto che lo esprime e si sviluppa sempre in relazione con il territorio.

Quando sono arrivato in Sudtirolo, mi ha stupito constatare che esistevano molte persone e realtà di grande spessore nel campo delle professioni creative. Figure ed esperienze che esprimevano una cultura urbana ben collegata con reti e tendenze globali, ma che sul loro stesso territorio facevano fatica a parlarsi con altre realtà analoghe. Perciò ho pensato che sarebbe stato utile poter fare di Museion un nodo in grado di attrarre e mettere in rete tutto questo potenziale.

FP: vorrei chiederti di soffermarti su questa dimensione urbana che hai colto in Sudtirolo. Mi interessa perché sono convito che la dialettica tra centro e periferia, tra cultura urbana liberal e globalizzata e cultura periferica neoconservatrice e rurale, sia una delle chiavi di lettura della contemporaneità. Credi che una dialettica simile sia leggibile anche nel nostro territorio?

BvdH: non sono sicuro che una dialettica di questo tipo sia leggibile in modo netto in questo territorio. Due anni fa, quando sono arrivato per la prima volta, ho cominciato a parlare con un grande numero di persone e l’alto livello di professionalità che incontravo era, come dicevo prima, fonte di grande stupore.

Allo stesso tempo mi sono accorto che definire un centro attorno a cui queste energie gravitassero era impossibile o, almeno, molto difficile. Buona parte quanto accadeva di rilevante in merito alla cultura urbana, quella che tu chiami “centro, accadeva ai margini del territorio, senza avere per questo una natura marginale o periferica. Questa cultura, le sue tensioni ed espressioni, erano distribuite sull’intera superficie del territorio, pur avendo un ruolo limitato, dal momento che molta della memoria collettiva del Sudtirolo è definita dai suoi elementi di natura tradizionale e periferica.

FP: il modo in cui descrivi queste dinamiche mi fa venire in mente più che l’immagine di due vettori che si confrontano l’uno contro l’altro, quella di due strati sovrapposti, due campi di forze che occupano la stessa superficie e dialogano, negoziano e si scontrano non necessariamente non uno in opposizione all’altro, ma uno in relazione alla presenza dell’altro.

BvdH: non saprei se è questa è una metafora utile a descrivere quello che succede quo. Andrebbe messa alla prova. Quello che posso dire però è che, se ci pensi, il Sudtirolo ha circa 500.000 abitanti, metà della popolazione di Monaco di Baviera. Le sue dimensioni, ma anche alcune delle dinamiche con viene vissuto dalle persone, sono quelle di un centro urbano di medie dimensioni. Se guardi al territorio in questo modo, l’intera dialettica tra centro e periferia svanisce o può essere giocata in relazione al resto del contesto che circonda il Sudtirolo.

FP: lo trovo un punto di vista interessante, perché allarga la visuale e permette di collocare il territorio in un dialogo e in un orizzonte sono molto più vasti dei suoi confini. È un’operazione in cui colgo molto potenziale

BvdH: credo si tratti dello stesso potenziale di cui parlo e che ho visto quando sono arrivato qui per la prima volta e che mi interessa sviluppare col progetto Art Club Forum, perché, vedi, io qui sono e sarà sempre uno straniero. Se devo farmi carico di un compito, è quello di provare a sviluppare nuovi modi con cui guardare a questo territorio.

FP: penso che sguardi come il tuo siano proprio quello di cui abbiamo bisogno. Grazie per la chiacchierata

BvdH: grazie a te.