Il lavoro culturale visto dalla working class. Un incontro con D. Hunter

Nel novembre del 2019 scrissi un articolo in cui sostenevo che il lavoro culturale in Italia aveva un problema di classe: la “classe creativa” italiana non rispecchia la diversità culturale della società italiana, ma è composta in maggior parte da segmenti della società benestanti, ad alto capitale culturale e sociale e culturalmente omogenei. Sempre in questo articolo, ricordavo che questo è un problema per il tipo di prodotti culturali e mediali che questa industria produce: i testi di questa industria sono per la maggior parte storie raccontate dal punto di vista di autori bianchi, urbani, maschi, benestanti, anziani ecc…, che non riescono a cogliere, né a riflettere, la complessità della società italiana e le sue diseguaglianze.

Naturalmente, questo non è un problema solo italiano, ma di tutte le industrie culturali occidentali, in misure diverse. Nel Regno Unito, dove le differenze di classe sono ancora più evidenti che da noi, ricercatori universitari e organismi di controllo delle industrie culturali hanno perlomeno provato a rendere più visibile il problema, producendo dati su queste diseguaglianze e report sulla diversità culturale delle industrie mediali britanniche. Se volete farvi un’idea, potete consultare intanto questi dati: la ricerca “Panic! Social class, taste and inequalities in the creative industries” pubblicata nel 2018, oppure i report annuali dell’Ofcom britannica (il corrispettivo britannico dell’Agcom italiana) sulla quota di diversità culturale all’interno delle industrie televisive e radiofoniche britanniche, iniziati nel 2017.

Anche l’EBU, l’associazione pubblica che riunisce le aziende di servizio pubblico dei media europee, ha iniziato a produrre report (“Diversity and public service media”) sulla diversità dei lavoratori di queste aziende, con focus ad esempio sul ruolo delle donne nell’industria musicale (“Women in music”). Lo stesso tema è stato indagato in Italia dalla sociologa Alessandra Micalizzi, in una ricerca sul divario di genere nell’industria musicale italiana. L’European Audiovisual Observatory invece produce ogni anno un report sulla presenza delle donne nell’industria audiovisiva europea (“Female professionals in European film production 2022”). In Italia, l’Università Cattolica di Milano pubblica da alcuni anni il report “Gender balance in Italian film crews”. In Italia la ricercatrice ed economista della cultura, Flavia Barca, ha studiato molto il divario di genere nelle industrie creative e culturali. La Rai ha iniziato a farlo nel suo bilancio di sostenibilità del 2021.

Quella che sembra una nuova consapevolezza riguardo i divari di classe, etnia, genere e provenienza geografica all’interno delle industrie culturali europee ed italiane, in realtà è solo l’inizio, timido, di una nuova sensibilità verso questi temi. Le ricerche che ho citato, soprattutto in Italia, sono sporadiche, anche se sempre più frequenti e sono soprattutto concentrate sul divario di genere, dimenticando altri divari come quello di classe, di etnia o di provenienza geografica.

Qualcosa si muove, effettivamente, dal 2019: i media di servizio pubblico, compresa la Rai, finalmente si stanno ponendo il problema della loro diversità interna, non solo della diversità delle rappresentazioni mediali (la diversità “on screen”), ma della diversità dei loro dipendenti (diversità “off screen”), e anche negli studi sui media si cominciano ad analizzare le questioni sociali e culturali alla base di questa mancanza di diversità, invece di continuare a studiare solo i testi mediali, gli stereotipi e i pregiudizi contenuti in questi testi. L’attenzione in pratica si sta spostando dal “discorso mediale” alle questioni che stanno alla base della riproduzione di un certo discorso mediale.

Ma quello che si sta muovendo, non è abbastanza. Qualche passo avanti si è fatto, soprattutto in paesi come il Regno Unito, che hanno adottato delle politiche di reclutamento dei lavoratori culturali maggiormente sensibili alla diversità, soprattutto in quei settori pubblici delle industrie culturali come le università, i musei, le biblioteche, i media pubblici. Qualche lieve riduzione di questo divario si comincia a misurare, ma partiamo da una situazione in cui, ad esempio, in Italia, l’88% dei film a finanziamento pubblico sono diretti da registi maschi (fonte: Gap&Ciak, I divari di genere nel lavoro e nell’industria audiovisiva).

Non solo la strada del cambiamento è molto lunga, ma le soluzioni fin qui adottate sono quasi dei palliativi omeopatici, e la consapevolezza generale di questo divario è estremamente limitata nel discorso pubblico e nel senso comune. Inoltre, se in alcuni settori delle industrie creative la sensibilità verso questo tema è maggiore, in altri settori come quello dell’editoria, per esempio, i dati sono molto scarsi. Ma il problema maggiore è ancora l’invisibilità della questione della classe sociale. Se il divario di genere è fortunatamente un tema sempre più centrale, il divario di classe è  un elefante nella stanza ancora enorme ed invisibile, e lo sarà sempre di più, viste le recenti uscite dell’attuale governo sulle questioni culturali e la fede dei suoi ministri nell’ideologia del merito, che appunto rende invisibili le diseguaglianze di partenza esistenti nell’accesso alla produzione culturale.

Chi oggi occupa posizioni di potere o anche solo di decisione editoriale all’interno delle industrie culturali, è lì perché se lo merita, perché ha un dottorato ed è qualificato (sicuramente), o è lì anche perché ha avuto una famiglia alle spalle che ne ha potuto sostenere le spese di acquisizione delle competenze professionali o perché la sua famiglia aveva il capitale sociale di partenza per poterlo introdurre nelle giuste reti professionali? E badate bene, non è una semplice questione di “giustizia” o di “merito”. Il problema, cioè, non è soltanto che molte persone che hanno un background “popolare” non hanno la possibilità di accedere alle industrie culturali da “produttori” invece che solo da “consumatori” e questo naturalmente non è giusto. Il problema più importante è rappresentato dagli effetti di questa disparità di opportunità: gli effetti si vedono appunto nei prodotti mediali che informano le nostre visioni del mondo, alimentandole e confermandole. Se questi prodotti sono poco diversi, o portano involontariamente inscritti su di sé la visione del mondo di una minoranza dominante di persone, il risultato è che le rappresentazioni più popolari della società saranno sempre troppo omogenee rispetto alla realtà dei fatti.

In questo contesto, il festival della letteratura working class, che si è tenuto dal 31 marzo al 2 aprile dentro il presidio della fabbrica GKN di Campi Bisenzio (Firenze), organizzato da Edizioni Alegre e collettivo di fabbrica GKN, rappresenta una vera discontinuità necessaria.

Sono andato a fare un giro al festival sabato 1 aprile, perché volevo ascoltare dal vivo lo scrittore di Nottingham, D. Hunter, autore di un libro che avevo amato moltissimo (Chav. Solidarietà coatta, Alegre 2020). D. Hunter è figlio della working class anglosassone e nel libro racconta tutte le difficoltà della sua vita “coatta”. Lo fa senza alcuna auto-commiserazione ma il suo libro vale più di 100 saggi sociologici di critica alla meritocrazia.

La sala della fabbrica dove parlava D. Hunter era stracolma, ho contato 5-600 persone. Era un festival di letteratura, ma davanti a me, stranamente, non c’erano solo file di capelli bianchi ascoltatori di Radio3, tipici degli incontri con gli autori nei festival di letteratura nostrani, ma una platea culturalmente e demograficamente molto varia ed effervescente.

Per quanto quei lettori presenti al festival rappresentassero una nicchia, era una nicchia che esisteva, e che per la prima volta aveva una propria visibilità e un proprio spazio dedicato. Gli autori presenti erano scrittori cresciuti in un preciso retroterra culturale e sociale, i libri esposti raccontavano la loro vita, aprivano una finestra sull’universo culturale della working class contemporanea e proponevano rappresentazioni mediali introvabili altrove, nelle industrie culturali tradizionali. Per sapere come vive un “chav”, un coatto anglosassone, per capirne il punto di vista, non ci sono tanti media disponibili oggi. La sua voce, quel pezzo di società, è invisibile, oppure romanticizzato, stereotipato o stigmatizzato in romanzi e serie scritti da autori middle-upper class.

In un contesto in cui il lavoro culturale si riproduce secondo logiche di classe e di genere e in cui queste questioni sono perlopiù invisibili ai più, questo festival ha rappresentato una novità fertile e una grande speranza di cambiamento delle industrie culturali. Abbiamo bisogno di più festival come questo, di più libri pubblicati da autori working class, e di più visibilità mediale per eventi come questo. Perché se è vero che i media contribuiscono alla formazione della nostra visione del mondo, allora in questa visione devono avere spazio e voce anche tutte quelle minoranze che fin qui sono state rappresentate da “altri” e non da sé stesse. Era questa la lezione dei Cultural Studies britannici, che dovremmo tutti riprendere in mano.

 

Immagine di copertina: ph. Sebastiaan Stam da Unsplash