Selfie Life. Lo specchio del mondo

autofiction

Nel mito di Ovidio, Narciso rifiuta l’amore di Eco – già, ma perché? Lui che cerca la replica di se stesso dal punto di vista dell’immagine, perché respinge la riproduzione di qualcosa di così rappresentativo di sé quale può essere la propria voce? Nello stesso racconto inventato da Ovidio, l’innamoramento di Narciso per la sua propria figura, il suo incontrare lo specchio dell’acqua e lì restare, chino, rapito e conquistato dalla sua propria immagine, accade subito dopo avere lui inflitto a Eco la bruciante delusione di vedersi rifiutata nell’offerta d’amore. Lei, Eco, era corpo, oltre che voce; ma dopo che Narciso la scansa via, le dimostra quanto non la vuole (quanto non vuole quelle sonorità che misteriosamente gli stanno ritornando indietro, chissà da dove), ecco quello stesso corpo di Eco farsi di pietra, e di lei non rimanere che il soffio della voce. Nessuna risonanza: solamente suono.

Vicenda di non-incontro, storia di una non-apertura con conseguente non-“decollare” di una relazione. Eppure, già quel solo risuonare di Eco, il suo lasciar vibrare in lontananza la voce di Narciso, già quel gesto se lui lo avesse accolto, avrebbe potuto significare molto. Accettare è già inizio di uno scambio, laddove per il narcisista assoluto, intorno non c’è che il deserto.

C’è stato un tempo in cui il narcisismo era un vezzo, un’inclinazione naturale da considerare con riprovazione anche divertita. Pare che Carlo Levi usasse andarsene in giro chiedendo: “Ciao, come sto?” (stessa espressione di recente utilizzata in forma di parodia critica degli atteggiamenti di protagonismo di Matteo Renzi). E tuttavia, appartiene al passato, quell’epoca in cui mettersi al centro delle cose era un difetto da parte di un artista, ma difetto grazioso, da rimarcare sì, però con accondiscendenza affettuosa, considerandolo un eccesso tutto sommato perdonabile.

In massima parte (ma non solo) per via dell’invasione dei social, fenomeno da cui siamo letteralmente sommersi e senza troppo ammetterlo, narcotizzati, le possibili derive del culto di se stessi hanno assunto un significato diverso, conquistando una portata più vasta e più insidiosa. Pensarsi al centro, pensarsi primi – pensarsi unici, a volte di questo si tratta – è diventato qualcosa di pervasivo. Amarsi di un amor proprio esagerato, quello che fa pensare se stessi come il solo filtro credibile attraverso cui osservare il mondo, in questi tempi xenofobi e ultra-virtuali, non è più unicamente un “vizietto” da criticare con benevola severità. È un peccato. Nel momento in cui il mio paese discende verso una catastrofe politica evidente, e vedo persone su facebook intrattenere le platee virtuali postando foto delle feste di compleanno dei loro propri figli, o di se stessi in selfie che li mostrano con indosso qualche nuovo sgargiante capo di vestiario, vengo presa da una sorda collera, devo ammetterlo: assalita da una nausea severa e impietosa. Il narcisismo, e più ancora la componente solipsistica che esso contiene in sé (quel rifiuto, da parte di Narciso, di ascoltare la voce di Eco, di entrare in relazione con lei), oltrepassa i limiti della plausibilità per sconfinare in un’assenza di realtà. Si dica quel che si vuole della “trumanshowizzazione” del reale – chi vive in sé, concentrato sulla propria persona e sulla sua autorappresentazione, quel che solo conquista è una zona via via più astratta perché avulsa da qualsiasi contesto: fuori dalle cose. Se si ha come bersaglio il mondo, ma volendo toccarlo con un’unica freccia, se stessi, non c’è scampo: si manca il tiro. “Être à côté de la plaque”, come recita l’espressione francese – che sottende l’essere sfasati anche nel significato di fallire, essere “drop-out” perché non allineati con lo scopo.

Anche per chi scrive, pensarsi insieme, tra gli altri, è diventato imperativo. Uno dei motivi della débacle clamorosa subita dalla classe politica della sedicente sinistra italiana, e del conseguente disastro elettorale (i cui effetti subiamo da alcune settimane, come fosse un incubo, e con una passività di fondo che trovo impressionante), risiede nel medesimo cruciale problema: il narcisismo. Non è un luogo comune, affermare che se il Partito democratico ha consegnato il paese a un governo di destra, lo ha fatto soprattutto a causa di anni al potere sprecati ingolfandosi in giochi interni di potere, vili siluramenti, sordide vicende di carisma d’immagine, di protagonismi incrociati da parte di un gruppo dirigenziale di individui i quali non hanno saputo farsi spazio a vicenda, sostenersi, così da procedere insieme. Tardi ormai per rammaricarsi – sarebbe piuttosto infine il momento di pensare nuove forme politiche alternative, dove coesione conti più di personale affermazione, e l’agire ben più dell’apparire.

Comunque, nonostante in queste ultime settimane sia forte la tentazione di cominciare a farlo, personalemente non mi occupo di politica, bensì di letteratura. Il che sposta l’asse della questione, orientandolo altrove, ma giusto di pochi gradi. Anche per gli scrittori, la “minaccia narcisistica” costituisce un problema centrale. Il lavoro creativo di chi lavora con le parole, ha trovato un margine di legittimazione nella capacità di dar mostra di gradi di amor proprio e di autostima incrollabilmente alti. Il “sé” è sembrato costituire un universo narrativo man mano più dirimente, e proprio nella sua componente ipertrofica. Con relativo imporsi di generi letterari corrispettivi. L’autofiction, in particolare: forma di autorappresentazione estetizzata (letteraria) della propria biografia. Dopo che il francese Serge Doubrovsky ha inaugurato tal genere (con il romanzo Fils, nel 1977), moltissimi sono stati i casi di una declinazione romanzata di esperienze reali (un importante esempio nostrano recente è quello di Leggenda privata di Michele Mari). Parlare di sé insomma è diventata una “moda”, che genera effetti collaterali per quanto esula dal lavoro vero e proprio, slittando sul piano della sua promozione. L’autorevolezza di qualcuno che scrive, commenta, interviene, pensa – inventa, persino – ha trovato nella dismisura del senso di se stessi un “plus-valore”, una componente rafforzativa nel suo imprestare argomenti probanti. Quanto più si sa stare al centro di tutto, quanto più si è bravi nella divulgazione della propria immagine, quanto più si è narcisi, insomma, tanto più si riesce a ottenere il premio di un successo “di pubblico”.

Data l’atmosfera di intolleranza crescente, anche tra “noi”, noi supposti simili, noi presumibilmente affini, ecco scatenarsi disaccordi per divergenze nelle rispettive letture della realtà. Contagiati dalla violenza che è nell’aria, eccoci pronti a non andare d’accordo, con relative chiusure in noi stessi via via più rigide e manichee. Nel mentre lo schema che associa un io ipertrofico al valore e all’importanza del suo dire, ecco più che mai mostra la corda; rende visibile il nervo scoperto del proprio fragile presupposto. Essere narcisisti, pensare a sé senza arrivare a rompere la gabbia della propria autorappresentazione, in una fase come questa, dove la realtà si è fatta feroce, separatista, agglomerato di ghetti di appartenenze esigue quanto non comunicanti, ecco diviene prova di pura miopia.

Pensare collettivamente ora si deve. E anche l’inventare storie, adesso è necessario ambisca a includere il mondo, e raccontarlo. Chi si figura personaggi, e li fa agire, non può sottrarsi alle influenze (che sono spesso prese di distanza) di – e da – un clima antropologico che è mutato. Narciso deve saper ascoltare l’eco che arriva dal prossimo; l’eco non della sua propria voce, ma di quelle altrui. Misurarsi con un modello dove l’altro, gli altri, sono a lui uguali, e lui un sé che sia uno tra milioni. Istanza creativa imperativa: astrarsi da questo mondo, come si può? Come non capire che anche il pensiero di se stessi, ora è trasformato. Conoscersi, indagarsi, raffigurarsi, trasporsi in creature della fantasia: atti che è giocoforza conoscano un riposizionamento in ragione del mutare della realtà intorno. Perché anche nel lavoro dobbiamo essere vigili; responsabili partecipanti del vivere comune.

Mi viene in mente un passo di un romanzo che amo moltissimo, Kim di Rudyard Kipling. Il ragazzino Kim è appena salito su un treno, affollato di indiani, un treno che sbuffa e sferraglia pronto a veicolare i passeggeri nel lungo tragitto. Kim sta seduto in quel treno, a testa china, si guarda le scarpe, parla mentalmente con se stesso: “ ‘Sono un sahib (…). No, io sono Kim. Questo è il mondo e io sono Kim. E chi è Kim?’ Egli allora esaminò con calma la sua identità, il che non aveva ancora mai fatto prima. Egli non era dunque che un povero essere insignificante in quell’immenso mondo tumultuoso che è l’India, e se ne andava verso il sud incontro a un destino ignoto”.

Sino a quando non prenderemo in carico l’eco della voce altrui, le voci di chi da una parte all’altra del globo grida, chiede aiuto, asilo, riconoscimento, sino ad allora saremo velo a noi stessi, proprio come lo è Narciso quando non comprende le proprietà riflettenti dell’acqua in cui si rimira. L’autopromozione, l’impegno a far parlare il più possibile di sé e del proprio supposto talento, sono cose risibili di fronte al cambio di rotta dell’ “umano” cui stiamo assistendo. Non si tratta di smettere di inventare, né di finirla di scrivere storie di finzione, o di autorappresentarsi nell’autoficition. Ma espandere il pensiero spostandolo su dimensioni condivise, collettive; di riflettere sul prossimo, essere capaci di quell’empatia che implica il mettersi nei panni altrui, il guardare con gli occhi degli altri, sforzandosi così di essere umani. Più che mai umani. Atti dovuti, ora, e troppi avvenimenti legittimano il timore che lo saranno ancora di più. Pensarsi uno tra tanti, attitudine imprescindibile, per chi lavora a partire dalla responsabilità delle proprie parole scritte, della loro pertinenza e forza. Abbordare la realtà, calarcisi dentro, lasciarsi guidare dalla rabbia e l’avversione contro la misera crudeltà xenofoba di certa temperie che ci circonda.

La crisi culturale che stiamo attraversando (una crisi in atto da tempo, ma con i recenti avvenimenti fattasi palese, e virulenta) rende certe distorsioni narcisistiche più clamorose, e inaudite. Più che parlare di sé, o “mettersi in scena”, varrebbe la pena dare forma letteraria alla paura dell’altro, al panico di fronte alla minaccia del sentirsi invasi. Raccontare un’umanità nuova, e mostrando come differenti forme di ascolto possano entrare in gioco. Narciso ascolti gli echi, li sappia rielaborare. Scrivere storie che raggiungano gli altri, anche quelli che per frustrazione e paura si trincerano dietro la chiusura razzista e classista. Essere e sentirsi tra tanti, senza protagonismi ma impegnati a fare rete (e rete vera, non solo virtuale). Nessuna superficie d’acqua può più riflettere solo volti. Ora a dover venire riverberato è un mondo intero.


Immagine di copertina: ph. Alex Iby da Unsplash