Né élite né popolo: per Emanuele Coccia i giovani non guideranno il cambiamento

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    Di che cosa parliamo quando parliamo di élite? L’intervento di Alessandro Baricco (Repubblica dell’11 gennaio) sul patto andato in frantumi fra le élites e «la gente» proietta la discussione su un doppio piano: politico e culturale. E spinge a interrogarsi anche sul lessico. Che cosa sono, di preciso, le élite del ventunesimo secolo? Stanche estensioni di quelle novecentesche? Chi sono gli uomini al comando? Contano più loro o un opaco sistema di procedure? E «la gente»? È un’astrazione concettuale?

    Emanuele Coccia è un filosofo quarantenne, “maître de conférences” all’école des Hautes études di scienze sociali a Parigi: da quei corridoi sono passati Foucault e Derrida. Ha scritto fra l’altro un saggio sorprendente, “La vita delle piante. Metafisica della mescolanza”, che discute il nostro sguardo antropocentrico ripartendo dal mondo vegetale.

    Di Baricco, Coccia ha apprezzato il libro sulla rivoluzione digitale, The Game («fa un lavoro di riflessione importante che i suoi coetanei nemmeno si sognano di fare»), ma è più perplesso sulla contrapposizione élite/collettività del lungo articolo pubblicato su queste pagine.

    «L’opposizione fra élite e popolo – spiega al telefono da Parigi – è lo storytelling di questa stagione, ma non corrisponde alla realtà. Temo anzi che sia una falsa opposizione, proprio perché una delle conseguenze del Game, così come Baricco ha chiamato la rivoluzione tecnologica digitale, è la riduzione dell’élite a un corpo mobile, opaco, più definibile in termini di procedure che di uomini al comando.

    Le élites odierne non sono vere élites, non riescono a guidare nulla

    Rischiamo di credere a una favola, e cioè che da una parte ci sia – come in una partita di calcio – l’élite e dall’altra la gente. Trump fa parte delle stesse élite del Novecento, così come Salvini. E i “gilets jeunes”, per stare alla situazione francese, non sono il popolo: non ci sono migranti, non ci sono neri, non ci sono maghrebini, sono tutti piccolo-borghesi francesi, proprietari di piccola impresa. Bianchi, eterosessuali, spesso omofobi, antisemiti, spalleggiati dall’élite intellettuale antimacroniana».

    Quindi occorre già ripensare il concetto di élite?

    «Le élites odierne non sono vere élites, non riescono a guidare nulla. Non sono ai posti di comando dello Stato né dell’economia. Si tratta di gruppi sociali o aggregazioni culturali eteroclite, spaventate e indebolite da cambiamenti di cui nessuno, in questo momento, è capace di misurare la portata. Se vuole, queste battaglie somigliano molto a quelle fra gang in un film come Gangs of New York di Scorsese».

    Una guerriglia fra pezzi di élite?

    «Temo di sì. E presto vedremo la Storia che verrà con il cannone a ricordarci che sono scaramucce da periferia dell’Impero (perché comunque non bisogna mai dimenticare che il futuro oggi si costruisce tra Dubai e Pechino, e tutto quello che succede al di qua è semplice brusio di periferia). Inutile volerci costruire sopra. Sono reazioni spaventate all’interno di piccole nazioni travolte dai mutamenti geopolitici e tecnologici».

    Ma delle rivendicazioni sociali, economiche, dell’insofferenza per ogni tipo di mediazione che lettura dà?

    «Niente di nuovo. Prendiamo ancora i “gilets jaunes”: chiedono aumenti salariali e esenzioni fiscali: cosa c’è di nuovo in questo? Il nuovo è davvero altrove, sia geograficamente sia culturalmente. E trovo davvero che ci sia moltissima cattiva fede da parte degli intellettuali nel salutare la novità di queste manifestazioni.

    Il nuovo non è l’elettorato di Salvini o di Trump: è altrove, sia geograficamente sia culturalmente. Il nuovo è la crisi climatica che, di qui a cinquant’anni, farà sì che in Italia non avremo acqua per tutti.

    Lo stesso vale per l’elettorato di Salvini o di Trump. Il nuovo è altrove, sia geograficamente sia culturalmente. Il nuovo è la crisi climatica che, di qui a cinquant’anni, farà sì che in Italia non avremo acqua per tutti.

    Il nuovo è il fatto che la ricchezza non è piu prodotta attraverso il lavoro e che bisogna costruire un modello di umanità che sappia spendere il tempo (infinito) e darsi un senso della vita senza lavorare. Il nuovo è il fatto che la famiglia borghese non riesce più a contenere le forme e le intensità dell’amore di oggi e che bisognerà inventare nuove modalità di gestione dell’infanzia.

    Il nuovo è che il dominio politico-economico esercitato dalla Cina e spalleggiato dalla Russia non ha più bisogno di nessuna forma di egemonia culturale. I nuovi padroni del pianeta dominano senza che nessuno – né nel popolo né nelle élites – se ne renda davvero conto. Il resto sono solo piagnistei: poco importa che siano piagnistei di chi si autoproclama “popolo” o “élite”».

    Lei che insegna in un’importante istituzione universitaria non si sente quindi parte dell’élite sotto assedio?

    «Mi sento assediato semmai da colleghi che si trascinano dietro saperi nati nel diciannovesimo secolo e mai aggiornati. Vanno in giro con un taccuino a parlare con le persone, ignorando che esistono i Big Data. Le università, che sono il deposito di sapere degli Stati, accolgono un mare di idiozie inutili. Una gran parte delle discipline legate alle scienze umane non dicono più niente, sono incrostate di pregiudizi ideologici, basate su una separazione fra mondo umano e mondo naturale che Darwin aveva superato già nel 1859».

    La strada qual è?

    «Rifondare i modelli di insegnamento, obbligare gli studenti di informatica a studiare letteratura e viceversa, mescolare le carte, ovvero le discipline. Evitare che un docente di filosofia sia completamente digiuno di informatica».

    Questo lo pensa anche Baricco.

    «In certe facoltà umanistiche dovrebbe entrare qualcuno urlando: uscite di qui, state sognando i sogni dei vostri nonni! C’è uno spreco umano e generazionale enorme, gente parcheggiata e schiacciata da docenti in fondo reazionari, che ripetono schemi fuori dal tempo e non hanno mezza idea nuova.

    Le persone più interessanti oggi le trovi non fra chi studia sociologia, ma fra chi studia economia, informatica, design, moda. Insegnare in America o in Europa nelle facoltà di scienze umane significa avere davanti spesso ventenni apatici, quasi zombie, gente parcheggiata in attesa di una laurea in filosofia che non sa bene cosa vuole.

    Liberiamoci anche del mito romantico che saranno i ventenni che porteranno la soluzione e la novità. Con la fine del secolo e con il Game installato non sono necessariamente le nuove generazioni a pilotare il mondo».

    Come se ne esce vivi?

    «Su questo do ragione a Baricco: studiando».


    Versione integrale dell’intervista di Paolo Di Paolo a Emanuele Coccia uscita su Repubblica il 20 gennaio.

    Immagine di copertina: ph. Jonathan Harrison da Unsplash

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