Lo sfruttamento delle passioni

Per l’insieme delle tecniche impiegate a produrre contentezza, ribattezzato «consenso», l’ingegneria imprenditoriale del desiderio risulta troppo visibile. Persino i compiti più gioiosi sono al corrente del desiderio-padrone e hanno coscienza della cattura di cui è oggetto il loro sforzo. La vita sotto un desiderio-padrone è vita sfruttata. Ma sfruttata come? Non è detto che sia come lo immagina la teoria marxista. Poiché lo sfruttamento, nel senso marxista del termine, ha senso solo se articolato a una teoria sostanziale del valore-lavoro. Dove sfruttamento è il nome dell’appropriazione capitalistica del plusvalore misurata dallo scarto tra il prodotto totale e l’equivalente in valore della riproduzione della forza-lavoro, ovvero ciò che è versato in salari. Ma la definizione del valore della forza-lavoro (da riprodurre) è tra le cose più incerte, e di fatto circolari: non è il valore oggettivamente calcolato ex ante della forza-lavoro da riprodurre a determinare il salario, è piuttosto il salario a indicare il valore di fatto destinato alla riproduzione della forza-lavoro. Ma, per seguire la definizione marxiana dello sfruttamento, occorre soprattutto accettare di entrare in una teoria sostanziale del valore, la cui «sostanza» è il tempo del lavoro astratto.

Il pensiero di Marx e quello di Spinoza hanno sufficienti affinità e punti di aggancio da poter smettere di tacere su ciò che costituisce (con la dialettica del negativo e della contraddizione) la loro principale divergenza: il valore. Il valore sostanziale, figura della trascendenza reintrodotta surrettiziamente nel cuore dell’immanenza, è rifiutato da Spinoza come tutto ciò che potrebbe ricostituire norme oggettive in relazione alle quali lo scarto delle cose rappresenterebbe un vizio e un difetto: la filosofia di Spinoza è l’affermazione dell’assoluta pienezza del reale e della sua perfetta positività, che è anche una delle ragioni per cui fa scandalo; del resto è vero che non è facile stare a sentire il suo «per realtà e perfezione intendo la stessa cosa»…

È tuttavia possibile approcciare la critica spinoziana del valore sostanziale da un altro lato, quello della definizione IX della Terza parte dell’Etica, Scolio che rovescia il rapporto tra valore e desiderio ponendo, all’esatto opposto delle nostre apprensioni spontanee, che non è tanto il valore, in quanto preesistente e oggettivamente fissato, ad attrarre a sé il desiderio quanto il desiderio che, investendo gli oggetti, li costituisce in quanto valore. Non esistono contenuti sostanziali del valore, non vi sono altro che investimenti di desiderio e la permanenza di un’assiogenia che trasfigura il desiderato in bene.

Questo rovesciamento vale per tutti i valori, siano estetici, morali o economici, per quanto distanti possono apparire questi ambiti di valorizzazione. Prendendo, invece, sul serio l’identità della parola, al di là della eterogeneità apparente dei suoi usi, Durkheim formulerà esplicitamente il progetto di una teoria trasversale del valore. Non può esservi valore oggettivo per Spinoza, perché l’integrale immanenza non tollera altre norme se non immanenti. Ma l’inesistenza di un valore sostanziale, teoricamente ribadita, non impedisce in alcun modo di pensare i molti processi di valorizzazione. I valori che vi sono generati non sono altro che il risultato di giochi di potenze di investimento, e con questo posizioni e affermazioni di valore. Non esiste valore sostanziale che possa funzionare oggettivamente da norma e fornire incontestabili ancoraggi alle contese di distribuzione, vi sono solo vittorie temporanee di alcune potenze che impongono con successo l’affermazione dei loro valori. Vale quel che il più potente ha dichiarato che vale: cosa che non esclude del resto, in alcuni ambiti, che si formino comunità di valorizzazione dissidenti, e le lotte per la valorizzazione sono di fatto la normalità della vita sociale del valore.

È lo stesso per il campo della valorizzazione economica che niente, nemmeno l’apparente oggettività numerica, può ancorare a norme sostanziali. Da questo punto di vista, la critica spinoziana invita piuttosto a rileggere la teoria marxista del valore-lavoro e del plusvalore come un’affermazione scagliata contro affermazioni concorrenti; e d’altra parte come un omaggio involontario che il materialismo marxiano rende all’idealismo, concedendo implicitamente che l’elaborazione teorica (di una «teoria oggettiva del valore») è appunto la forma superiore di legittimazione di un’asserzione rivendicativa.

È vero che le norme della pubblicità, norme formali della disputa che vincolano l’argomentare pubblico alla generalità, non smettono di sottoporre qualunque rivendicazione alla sempiterna domanda: «In nome di che?». «In nome di che fai la domanda?», «A che titolo e cosa ti giustifica a domandare?». Lo smarrimento che in genere accompagna la ricezione della critica spinoziana – letta come annichilimento di ogni giustificazione possibile poiché annienta ogni ricorso a valori oggettivi, dunque a principi «generali» – è in tutto e per tutto prigioniero della forma «giustificazione» (oggettivamente illusoria benché probabilmente socialmente necessaria), al punto di aver completamente perso di vista il carattere fondamentalmente infondato (e non fondabile) di qualunque domanda.

Alla domanda «perché e in nome di cosa domandi?». La risposta è sempre in ultima istanza: perché sì. «Perché sono io», ovvero in virtù del diritto naturale del mio conatus e del suo fondamentale egocentrismo, della forza di questo desiderio che è il mio, ecco perché domando. E per il resto, come per l’intendimento, la giustificazione e la «generalità» verranno da sé. Le domande, espressioni della natura affermativa del conatus, sono degli sforzi di potenza i cui conflitti saranno regolati, come per qualunque altro antagonismo nel mondo, dalla legge elementare della potenza più forte; e ciò evidentemente dietro i vincoli della specifica messa in forma della potenza nel mondo sociale, che possono portare ad esempio le tensioni a esprimersi in discorsi «giustificati».

Ecco perché dalla rinuncia alla teoria marxista del valore, plusvalore e sfruttamento, non deriva affatto la diserzione dall’ambito della polemica monetaria e dal conflitto sulle ripartizioni! Ci sono lotte sulla distribuzione del denaro. E non è necessario fare appello a una teoria oggettiva e sostanziale del plusvalore per denunciare in quanto ingiusta la divisione del valore, assumendo la parzialità costitutiva del punto di vista che afferma tale ingiustizia. La ratio dei decili o dei centili superiori e inferiori nella distribuzione statistica dei redditi (incontestabili all’interno dell’impresa o nell’economia), i tassi di distribuzione dei guadagni (ovvero i dividendi) o la quota di valore aggiunto catturata dagli azionisti forniscono indicatori quantitativi in grado di dare corpo all’affermazione di ingiustizia (di scontento) di una delle parti coinvolte nel conflitto di ripartizione, una parte che si dà le sue norme proprie in riferimento ad altre situazioni storiche o geografiche, oppure per semplice posizione affermativa: «la ratio tra i 10 salari più alti dell’impresa e i 10 più bassi non deve eccedere 20 o 10 o x, ecco la nostra norma, lo diciamo noi».

Ma è vero che la «generalità» e l’imperativo alla giustificazione – che impongono di attribuire le rivendicazioni a dei principi – sono anche gli orpelli con i quali si travestono le affermazioni di potenza e sono un lavoro di forma forse indispensabile per salvare la società dalla violenza che seguirebbe l’espressione nuda di rivendicazioni ricondotte al loro stato originario di pure appropriazioni. Il fatto di dare a queste appropriazioni la forma di un «discorso fondato su principi» non ha alcun valore intrinseco: ha solo il valore estrinseco, comunque vitale, di erigere una protezione contro il caos appropriativo, suggerendo con questo che, nel mondo sociale, la discorsività più che con la verità ha a che vedere con i colpi di forza delle intenzioni di potere, da un lato, e con la necessità sociale del contenimento della violenza, dall’altro.

I lavoratori, comunque, non devono avere in testa la teoria marxiana del plusvalore per sentirsi sfruttati e fare una lotta. L’idea dell’ingiustizia monetaria non è l’unica in causa, anche se evidentemente offre a queste lotte il grosso dei loro contenuti. È tuttavia l’idea più generale della cattura a radunare trasversalmente la varietà di queste proteste. E contrariamente a ciò che si potrebbe credere, la prospettiva della cattura non aiuta tanto a rimettere in sella la teoria marxista del plusvalore, quanto piuttosto suggerisce non di abbandonare, bensì di ridefinire l’idea di sfruttamento. A una prima occhiata la cosa ha tutto del paradosso, poiché lo sfruttamento, nel senso marxiano del termine, è precisamente definito come la cattura del plusvalore da parte del capitale, cioè la privazione dei salariati di una parte del plusvalore che loro hanno prodotto.

Eppure non è lo spossessamento in quanto tale di questa parte del valore a fare lo sfruttamento, ma la sua appropriazione privata da parte del capitalista. Se il plusvalore fosse restituito non al capitalista bensì all’impresa dietro totale controllo democratico del lavoro o, per dirlo meglio, al corpo salariale stesso, chi parlerebbe ancora di sfruttamento? Formalmente parlando, i lavoratori si vedrebbero comunque personalmente privati del plusvalore, in quanto scarto tra il valore totale e il valore di riproduzione della forza-lavoro. L’algebra «oggettiva» del valore-lavoro resterebbe dunque inalterata, eppure non porterebbe alla conclusione di sfruttamento che è supposta determinare. Se c’è sfruttamento, è più in relazione a una teoria politica della cattura che a una teoria economica del valore. Per questo il costo della rinuncia alla teoria marxiana del valore oggettivo è minore di quanto sembri, poiché tale teoria costringeva alle impasse di essere stata espressamente concepita per sostenere un concetto di sfruttamento… che può essere sostenuto diversamente.

Passare da un’economia del plusvalore a una politica della cattura richiede allora la precisazione della natura di ciò che è catturato. La risposta a questa domanda di ispirazione spinoziana è immediata: la potenza di agire. Il desiderio-padrone intercetta la potenza di agire degli arruolati. Fa operare per sé le energie conative dei terzi che le strutture sociali, ad esempio quelle del rapporto salariale, gli hanno consentito di mobilitare al servizio della sua impresa (ricordiamolo: il nome più generico dell’azione desiderante). Nel peggiore dei casi, come quello correlato al desiderio di evitare il male del deperimento materiale, la potenza di agire interviene in un ambiente di passioni tristi. Nel migliore, la specifica ingegneria del desiderio dell’impresa (stavolta nel senso capitalistico del termine) allinea i conatus salariali attraverso effetti di gioia, ma confinando le potenze di agire alla divisione del desiderio, ovvero limitando la loro effettuazione ad ambiti estremamente ristretti. Così gli arruolati sono destinati a contributi parcellizzati, ed è il desiderio-padrone a operare la totalizzazione. La cattura da parte del desiderio-padrone, attivazione al proprio servizio delle potenze di agire arruolate, è allora spossessamento d’opera.

Spossessamento non solo del prodotto monetario dell’operare quando il plusvalore è catturato da parte del capitale, ma più in generale, perché la cattura è lo specifico di tutti i padroni, spossessamento di autorialità. Il padrone generico, in effetti, si appropria del beneficio simbolico dell’opera collettiva degli arruolati, che si attribuisce totalmente con l’ausilio dei meccanismi sociali della personalizzazione e dell’incarnazione istituzionale. Lo spossessamento operato dai padroni è dunque dell’ordine della confisca di riconoscimento, attraverso il monopolio individuale di una autorialità che è sostanzialmente collettiva.

Il padrone scientifico spunta dagli annuari della posterità come «scopritore», facendo sparire il lavoro di tutti coloro che l’hanno aiutato a scoprire; il barone universitario firma l’opera per cui i suoi assistenti hanno fornito statistiche e documentazione senza le quali la tesi non stava in piedi; il regista si fa riconoscere come unico autore di un insieme di immagini che solo il suo cineoperatore era tecnicamente capace di produrre… E dire questo non significa negare la possibile disuguaglianza dei contributi, il carattere «attraente» di alcuni e «attratto» di altri, dunque la loro oggettiva articolazione gerarchica, perché è vero che l’idea direttrice si differenzia dai contributi alla sua realizzazione. Significa semplicemente sottolineare come quasi tutti i contributi finiscano per sparire dietro uno solo, ribadendo del resto la divisione fondamentale già sottolineata da Marx ed Engels tra lavoro di «ideazione» e lavoro di «esecuzione».

Dovremmo allora stabilire una distinzione tra l’autorialità, riservata all’idea direttrice, e la realizzabilità, irriducibilmente collettiva… senza certo dimenticare che la prima resterebbe lettera morta, mera virtualità, senza la seconda? Le ambizioni autoriali – un altro nome del desiderio-padrone – che, troppo ambiziose, rendono impossibile la loro soddisfazione tramite il solo autore portano in quanto tali all’arruola- mento e alla divisione del lavoro prolungata in divisione del desiderio; vi si aggiunge adesso una divisione del riconoscimento che è divisione della gioia. Le opportunità di gioia sono massime al vertice della piramide di arruolamento, sommità in cui l’impresa (quale che ne sia la natura) ricapitola il proprio fare collettivo e lo presenta in forma compiuta e sintetica agli sguardi esterni dell’opinione, istanza del più grande riconoscimento.

L’esterno conosce solo il vertice della piramide di impresa, ovvero colui che lo occupa e che, dominando, si cautela di riservare per sé le opportunità di gioia alle quali la sua posizione lo destina già oggettivamente attraverso i meccanismi dell’incarnazione-rappresentazione. È in prima istanza a lui che spetta la gioia massiccia fornita dall’opinione esterna. Riconosciuto e contento, il desiderio-padrone riconosce e successivamente rende contenti i suoi arruolati più prossimi, che a loro volta riconoscono i loro e così via lungo catene gerarchiche che sono le linee di scorrimento di una trickle-down economy della gioia.

La composizione delle potenze di agire che sfocia nella possibilità di cattura dei padroni, in forma monetaria o simbolica del riconoscimento, è resa possibile solo dalle assegnazioni della divisione del desiderio e dalle piccole retribuzioni della divisione della gioia. Sono allora i meccanismi fondamentali della vita passionale, ma forgiati negli stampi delle strutture sociali specifiche del rapporto salariale capitalistico, a ordinare continuamente gli sforzi conativi e a produrre il loro allineamento nella direzione del desiderio-padrone. Questo allineamento subordinato ha indubbiamente il tratto dello sfruttamento, poi- ché asserve le potenze d’agire alle imprese di un solo (o di alcuni), ma dello sfruttamento passionale.

Dire che gli individui vanno avanti con la passione non è altro che riconoscere il potere esclusivo degli affetti nel dirigere l’energia del conatus. Che il padrone capitalistico catturi una parte del valore è un fatto tal- mente evidente che sarebbe assurdo contestarlo, ma la mancanza di un riferimento sostanziale oggettivo al quale agganciare la misura del plusvalore obbliga a staccare l’idea dello sfruttamento dal calcolo del va- lore e a definirla diversamente. La strada senza uscita della soluzione marxiana alla domanda dello sfrutta- mento più che da deplorare è da considerare un’opportunità: l’opportunità di ricostruire un concetto di sfruttamento adeguato all’idea di un padronato generale. Anche prima della conversione del prodotto in denaro, il padrone capitalistico capta la stessa cosa di qualunque altro padrone particolare (barone universitario, crociato, coreografo…), ovvero l’oggetto principale di cattura del padrone generico: uno sforzo, cioè una potenza di agire. Ma la cattura delle energie conative arruolate dall’allineamento sul desiderio-padrone è possibile solo dietro determinazione passionale.

Ed è questo che sfrutta il padrone generi- co: potenza e passioni, potenza ben orientata attra- verso le passioni. Il lavoro di ingegneria degli affetti non ha altra funzione se non quella di concatenare (in parte) la vita passionale per favorirne lo sfruttamento e farla agire in un senso appropriato, cioè proponendo affetti e inducendo desideri conveniente- mente orientati. Conatus e affetti sono gli elementi dell’auto-mobilitazione felice, quella dalla quale il capitale ricava la miglior conversione in lavoro della forza-lavoro. E sono queste risorse che soprattutto sfrutta il padronato capitalistico, come declinazione particolare del padronato generico.

Ogni padrone specifico converte nei propri oggetti di desiderio lo sforzo delle potenze di agire ricomposte in passioni intorno a lui – il padrone di capitale in denaro, gli altri padroni in riconoscenza relativa al loro ambito, ma ciascuno giunge ai propri fini solo attraverso la mobilitazione di energie conative adeguatamente di- rette dagli affetti. Visto che tutti, guidati da un’ambizione impossibile da soddisfare con mezzi propri, hanno per vincolo, e di conseguenza per progetto, fa- re andare avanti degli arruolati.

Lordon CapitalismoFar muovere i lavoratori salariati, questo è il compito dell’ingegneria del desiderio capitalistica. Farli andare è innanzitutto, tornando ai significati elementari dell’automobilità, farli muovere da sé, mobilitarli, nel senso più prosaicamente fisico: facendogli mettere un piede davanti all’altro, come mostra lo spettacolo sconvolgente della quotidiana transumanza verso le fabbriche o i centri di affari, quei luoghi di grande concentrazione dello sfruttamento capitalistico delle passioni, fiotti di vettori-conatus allineati, grandi correnti di potenze d’agire allineate che vanno ad arrendersi al desiderio-padrone. Mobilitare i salariati significa anche farli funzionare, ovvero spingerli opportunamente ad attivarsi in conformità ai requisiti della messa a valore del capitale.

Occorre allora che i lavoratori intanto vadano – che si muovano e procedano –, poi che vadano bene – «come serve». Ma il senso più caratteristico della «genesi epitotimica» è forse l’ultimo, il più vicino al- l’espressione comune «mi hanno fatto andare». Fargli scambiare il desiderio-padrone per il loro significa infatti «far andare» i salariati, fargli credere che attivarsi al servizio della cattura sia uguale ad attivarsi per la propria «realizzazione», che il loro desiderio stia proprio lì dove sono, che il caso sistema bene le cose poiché al dilettevole si aggiunge l’utile, le «realizzazioni» del soggetto alle necessità della sua riproduzione materiale: queste operazioni immaginarie di induzione affettiva sono quelle dello sfrutta- mento delle passioni e quando sono particolarmente riuscite, allora, gli arruolati smettono di andare e cominciano a correre.

Estratto da Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni e forme dello sfruttamento di Frédéric Lordon, Derive Approdi 2015