La filosofia, le donne e la carriera internazionale
Ecco alcune cose che ho fatto negli ultimi quindici anni.
Mi sono laureata in filosofia in Italia, il mio paese natale. A diciotto anni mi sono iscritta a filosofia perché attraverso la filosofia volevo comprendere l’arte. Pensavo che la vita potesse acquistare significato grazie all’arte e che la filosofia potesse spiegare come questo fosse possibile. Forse lo penso ancora. Sono convinta che l’idea mi sia venuta leggendo Proust e La nausea di Sartre. Sia Alla ricerca del tempo perduto che La nausea si concludono con personaggi che scoprono di poter dare significato alla propria vita facendo arte e apprezzandola, rispettivamente. Così pensavo, perlomeno.
Quando li avevo letti, a sedici anni, questi due libri sicuramente avevano dato molto significato alle mie lunghe vacanze estive. Stavo sdraiata su un lettino a leggere per ore e ore, in spiaggia, nella mia città natale. Una spiaggia qualsiasi: una lunga striscia di sabbia di fronte all’Adriatico, una distesa di ombrelloni. Una meta a buon mercato, per famiglie, come si suol dire. Benché pensassi che l’arte può dare significato alla vita, non volevo spendere la mia vita a fare arte. Volevo capire come funziona l’arte. Anzi, no. Volevo fare arte. Ho sempre voluto scrivere un grande romanzo. Pensavo, però, di dover prima comprendere come funziona l’arte se volevo farne di buona. Per questo avevo bisogno della filosofia. (Perché mai fossi mossa da questi desideri mentre stavo sdraiata in spiaggia a sedici anni, a metà anni novanta, è un’altra storia. E non è molto interessante, credo).
Quando mi sono laureata, dopo cinque anni dall’iscrizione, non avevo la più pallida idea di quale fosse la relazione fra l’arte e ciò che dà significato della vita e non sapevo se la filosofia avesse nulla da dire in proposito. Non sapevo neppure se la filosofia avesse qualcosa da dire sul significato della vita, in generale – ma sapevo che è spesso descritta come una disciplina che si occupa esattamente di questo. La mia ricerca della ragione filosofica per cui l’arte può dare significato alla vita si era trasformata nella ricerca della ragione per cui facciamo filosofia. E, guarda un po’, non avevo una risposta neanche per questo.
I miei ricordi di quel periodo non sono molto vividi. Ci sono quattro cose che riesco a ricordare e che hanno a che vedere con la storia che vorrei raccontare.
Mi resi conto che, il più delle volte, quando i miei professori parlavano di arte parlavano del valore filosofico di qualche opera d’arte. Solo che non mi resi conto di essermene resa conto. Quello di cui ero consapevole era la costante insoddisfazione che provavo mentre sentivo questi filosofi parlare di arte. Non stavano trattando la questione che mi preoccupava, effettivamente. Io volevo capire come funziona l’arte e perché pensiamo che sia importante e loro parlavano di come l’arte può fare il lavoro della filosofia. Dovevo pensare che l’arte funziona esattamente come la filosofia? Magari fossi stata abbastanza sveglia da fare questa domanda. Non lo ero. Non era facile arrivare dritti al punto. Non ci educavano a farlo. La nostra formazione consisteva nell’andare a lezione – mediamente tre corsi a semestre. Quindici ore a settimana a prendere appunti mentre il professore parlava. Molti dei professori commentavano opere di famosi autori della storia della filosofia occidentale – dai presocratici a Heidegger, all’incirca. Alcuni erano in grado di esprimersi sulle opere della maggior parte degli autori nella storia della filosofia nel giro di un’unica settimana di lezioni. I nostri esami erano orali: dovevamo ricordarci quello che il professore aveva spiegato – il più delle volte era sufficiente ripetere quello che lui (o, meno spesso, lei) aveva detto –, riassumere (molto, molto rozzamente) gli argomenti di opere classiche (La Repubblica di Platone, Vita Activa di Hannah Arendt e un sacco di altra roba in mezzo) e richiamare alla memoria l’analisi critica di queste opere, condotta da uno storico della filosofia (spesso il professore stesso) in una monografia o in una collezione di saggi.
Al secondo anno di filosofia m’imposi di seguire un corso di logica, perché era quello che facevano i duri. Dopo seguii anche un corso di filosofia del linguaggio e due di filosofia della scienza. Scoprii che esisteva la filosofia analitica. Non era piacevole. Non ero particolarmente brava. Non sapevo se mi sarebbe stata d’aiuto per comprendere come funziona l’arte, la domanda da cui ero partita. Però era stimolante. Riusciva a esserlo anche se ce la insegnavano più o meno con lo stesso stile d’insegnamento degli altri corsi: infinite ore ad ascoltare un professore parlare. Il fatto è che questi professori parlavano di cose strane. Controintuitive (un termine che non avrei usato, all’epoca). Insolite. Da una premessa falsa si può derivare qualsiasi conclusione. In che modo i nomi si riferiscono agli oggetti? Il predicato “blerde”. Trovavo queste cose affascinanti, per quanto stranamente, in un modo un po’ irritante. Mi fecero provare il desiderio di dimostrare a me stessa di essere brava abbastanza da fronteggiarle. Ebbi una reazione simile quando lessi la Critica della capacità di giudizio di Kant. Kant cercava di dire qualcosa su perché diamo valore all’arte, era la cosa più vicina alla mia domanda di partenza a cui ero arrivata sino a quel momento, ma accidenti, c’erano un sacco di nuovi concetti e non capivo se lui si riferisse a cose reali o se tutto riuscisse ad avere senso solo all’interno di una specie di universo alternativo che lui aveva accuratamente costruito.
Poi andai a studiare a Berlino per un anno e, per caso, scoprii che c’erano filosofi analitici che parlavano di pittura e immagini. Decisi immediatamente che questo doveva essere l’argomento della mia tesi di laurea.
Mi misi infine a lavorare alla tesi, leggendo molti articoli e libri in inglese. Non avevo letto nulla in inglese dai tempi del liceo e dal secondo anno di università avevo studiato tedesco. Mi piace pensare che se non avessi studiato il tedesco non sarei andata a Berlino e non avrei mai scoperto l’estetica analitica. Ma non ci vuole un gran filosofo per vedere che c’è un’infinità di altri modi – e un’infinità di modi più immediati – in cui avrei potuto incontrare l’estetica analitica. Mi ricordo che stavo seduta nella Biblioteca Nazionale di Berlino (quella de Il cielo sopra Berlino) e cercavo di leggere una monografia sulla rappresentazione pittorica in inglese, perdendomi almeno una volta in mezzo a ogni paragrafo. La mia tesi era una specie di storia del dibattito sulla rappresentazione pittorica. E così non mi ero trasformata in una filosofa analitica, una che affronta questioni specifiche con argomenti curati. Mi ero trasformata in una storica della filosofia analitica. Ma, di nuovo, all’epoca non ne ero consapevole. Avevo fatto un bello sforzo, cercando di afferrare discorsi che non si sentivano in Italia, con l’aiuto del mio relatore – una persona realmente gentile, che mi aveva candidamente avvertito che lui stesso conosceva poco l’argomento. Ero orgogliosa dei miei sforzi, per i quali ero stata lodata durante la discussione della tesi, e quando vinsi una borsa di dottorato nella stessa università in cui mi ero laureata pensai di essere sulla strada giusta.
Il mio gentile relatore chiarì dall’inizio che mi sarebbe stato utile trovare uno specialista che mi potesse consigliare sull’argomento della mia ricerca – la rappresentazione pittorica, ancora. Alla fine del mio primo anno di dottorato mi avvicinai a uno studioso del tema, con il mio inglese ancora approssimativo e con un’idea altrettanto approssimativa per un progetto di ricerca, durante la cena di una conferenza, in un castello del nord est dell’Inghilterra. Fu la prima di tante esperienze harrypotteresche a venire: come effetto di quella conversazione fui ammessa in qualità di visiting student all’università di Oxford. Finii per restare là quasi tre anni. E fu lì che la mia trasformazione, grande, dolorosa, catartica, disorientante e tuttora in corso, cominciò davvero.
Quando mi trasferii a Oxford – un’università d’élite e, cosa più importante per me, la capitale europea e una delle capitali mondiali della filosofia analitica – la mia preoccupazione per il problema di come l’arte funziona e può dare significato alla vita sembrava svanita da tempo. Posso dire, però – retrospettivamente, di nuovo – che era stata rimpiazzata da una domanda vagamente collegata: come mai troviamo le immagini, in particolare quelle artistiche, così efficaci, benché non sia chiaro che cosa ci dicono, per il semplice motivo che ci mostrano delle forme e non sono invece fatte di parole che possiamo leggere e meditare? Pensavo che una risposta a questa domanda fosse la mia destinazione finale, ma a Oxford finalmente mi resi conto che c’erano delle fermate intermedie che non potevo aggirare: dovevo trasformarmi in una filosofa analitica e, allo stesso tempo, in una filosofa che pensa in inglese e scrive in inglese, perché quello era il linguaggio della filosofia analitica. La mia domanda sull’arte in generale, dunque, si era trasformata in una domanda su come funzionano le immagini, il che a sua volta conduceva alla domanda su come potevo trasformarmi in una studiosa di estetica analitica e allo sforzo per appropriarmi della lingua inglese. Stavo camminando all’indietro, come un granchio, e mi sembrava perfettamente sensato.
Quello che non mi sembrava molto sensato era che fossi giunta a realizzare solo allora, a ventisei anni, che dovevo fare così se volevo diventare una filosofa che si occupasse di estetica analitica. Ero sempre stata una persona ambiziosa, che aveva frequentato un buon liceo (una scuola pubblica, come la maggior parte delle buone scuole nell’Italia degli anni ’90), era stata in contatto con persone che erano ritenute in grado di dare buoni consigli, si era iscritta a quello che era considerato uno dei migliori corsi di laurea in filosofia in Italia, aveva vissuto e studiato a Berlino – la capitale cool della gioventù europea – eppure, sino ai ventisei anni, non ero mai stata consapevole del fatto che l’Italia non poteva davvero aiutarmi a diventare una ricercatrice nel campo che avevo scelto e che, per studiare certi tipi di filosofia a un livello davvero elevato, dovevo trasferirmi in un paese di lingua inglese e, se possibile, iscrivermi a un’università davvero buona (e costosa). Sapevo, certamente, che c’erano Oxford, Cambridge e le università della Ivy League, ma per me quelli erano posti dove dovevano andare a studiare persone che volevano un tipo ben diverso di carriera. Businessmen. Imprenditori. Scienziati. Matematici. Diplomatici. Non umanisti, non filosofi.
La crisi economica era appena iniziata. L’Italia, però, era soprattutto interessata agli scandali di Berlusconi – non tanto quelli politici, quanto quelli privati. Quando si dice guardare al dito anzi che alla luna. C’erano alcuni indizi di quello che stava per succedere, tuttavia. La stampa italiana, per la prima volta, stava parlando tanto di fuga dei cervelli e, non per la prima volta, di quanto profondamente corrotto, nepotista e resistente al cambiamento fosse il mio paese. Per quanto il mio cervello, che ancora sopravviveva grazie a una borsa di studio italiana, non fosse propriamente fuggito, io mi sentivo ogni giorno più distante, persino straniera, rispetto al mio paese. Non che mi sentissi britannica. Ero da qualche parte, in mezzo, piuttosto sola.
E così, mentre stavo a Oxford, il desiderio di pensare e parlare inglese, quello di lavorare da filosofa analitica e quello di vivere in un paese che offrisse più opportunità a qualcuno come me si intrecciarono strettamente. Formarono un gomitolo che era in parte il centro di gravità del mio nuovo io e in parte una matassa disordinata, aggrovigliata, che poteva fare molto male, se usata per giocare una specie di partita di squash interiore.
Ero innamorata della filosofia analitica, dell’inglese e della vita fra Oxford e Londra. Le due città ricambiavano: ho incontrato bellissime persone, ho visto molte bellissime cose. L’inglese divenne più facile man mano che il mio soggiorno nel Regno Unito si avvicinava alla fine – questo meriterebbe una storia per conto proprio, come qualsiasi migrante sa. La filosofia analitica restava distante, l’oggetto di un desiderio inappagato. Sì, stavo facendo dei progressi. Avevo presentato il mio lavoro a un paio di conferenze e pubblicato un paio di articoli (piuttosto buoni per gli standard italiani, davvero marginali per gli standard di Oxford). Il professore che mi seguiva lì mi incoraggiava a sviluppare le mie idee e mi dava consigli utili. Argomentare, però, non mi riusciva naturale. Ricostruire gli argomenti degli altri era tutto quello che sapevo fare, il più delle volte. Per argomentare filosoficamente sull’arte avevo bisogno di risorse filosofiche più generali. E così andavo ai seminari per gli studenti di master e dottorato. Metafisica, linguaggio ed epistemologia. Filosofia della mente. Teoria del valore. Erano così difficili da seguire. Ero così spaventata, e così invidiosa, degli studenti brillanti, che facevano domande e sollevavano obiezioni che difficilmente afferravo. Avevo bisogno di tempo, tempo per studiare queste cose dall’inizio, come una diciottenne, come qualcuno che non avesse imparato a pensare alla filosofia nei termini della storia della filosofia sin da quando l’aveva studiata al liceo. Avevo bisogno di tempo per scrivere saggetti su questioni basilari, da discutere con i professori. Tempo per sviluppare quello stile di scrittura analitico, acuto, interrogativo, inesorabile, che ammiravo così tanto e di fronte al quale mi prostravo.
Questo tempo non ce l’avevo. Dovevo scrivere una tesi di dottorato. Dovevo afferrare quello che potevo e farlo funzionare. E così feci. Tornai in Italia e ottenni il mio dottorato, difendendo, in italiano, una tesi scritta in inglese per dei lettori immaginari, che potessero vedere i miei sforzi e aiutarmi a migliorare: non gli schermidori col fioretto dei seminari di Oxford, né i filosofi italiani – solo due, nel mio paese, per quanto ne so, erano e sono tuttora esperti dell’argomento della mia ricerca, mentre alcuni, di tanto in tanto, hanno trovato opportuno prendermi un po’ in giro per il mio interesse nei confronti dell’estetica analitica.
Penso tuttora che sia degno di nota che nessuno, né in Gran Bretagna, né in Italia, mi abbia suggerito d’iscrivermi a un programma di master e dottorato in qualche posto dove potevo studiare filosofia analitica, ora che avevo ottenuto il mio dottorato in Italia. Chiesi in giro, e persone più esperte di me mi dissero che dovevo provare ad andare avanti, e migliorarmi, che potevo farlo da sola, potevo trasformarmi in una studiosa di estetica analitica, pubblicare, trovare un contratto a tempo determinato per un lavoro accademico, eccetera. Alcuni mi dissero che dovevo trovare la mia voce (che espressione trita!), la voce di qualcuno che aveva fatto il mio particolare tipo di viaggio filosofico. Questo non m’interessava: io volevo fare filosofia buona, rispettabile, spendibile sul mercato internazionale, e apprezzare l’ibridazione, l’eccezionalità, persino l’esoticità, mi sembrava mancare l’obiettivo. Cominciai a pensare che forse potevo farcela da sola. C’erano poi tutte le questioni che avevo toccato per la prima volta con la tesi di dottorato e che volevo comprendere molto meglio. Se avessi iniziato un nuovo corso di studi avrei dovuto lasciarle nel cassetto per molto tempo. E poi il tempo passava, di lì in avanti non sarei certo ringiovanita!
Un post-doc o un contratto d’insegnamento in un dipartimento di filosofi analitici fuori dall’Italia sembrava fuori discussione (non avevo insegnato altro che estetica, in Italia, per alcune ore – davvero scarsa come esperienza, per gli standard anglo-americani). Come tanti ricercatori italiani del mio settore, dunque, feci una domanda per un assegno di ricerca nella stessa università dove avevo ottenuto tutti i miei titoli di studio. Sinora è andata bene: sono quasi quattro anni che lavoro lì (quest’anno in realtà sono negli Stati Uniti, spiegherò dopo come mai). Il mio contratto però scade in autunno e il futuro – mio e di moltissimi altri “giovani” ricercatori – è molto incerto.
Circa quattro anni fa, dunque, sono tornata a vivere in Italia, ma ho continuato a leggere e scrivere in inglese, sempre. La sera, guardavo le serie TV su Netflix, come tutti, perché causano dipendenza, e spesso sono fatte bene, ma anche perché avevo bisogno di sentire persone che parlavano inglese. Di rado potevo discutere gli argomenti della mia ricerca nel mio dipartimento. Mi sarei sentita del tutto alienata, se non fosse stato per il mio ragazzo, che stava vivendo un’esperienza abbastanza simile. Parlavamo di filosofia assieme, guardavamo assieme Netflix e ci correggevamo reciprocamente gli articoli in inglese. Ho fatto alcune lezioni e tenuto alcuni seminari di estetica e mi è piaciuto moltissimo. Mi è piaciuto molto anche seguire gli studenti per le tesi. Ho odiato dover sedere dall’altra parte della cattedra durante gli esami orali, invece. Inutili, faticosi esami orali con decine e decine di studenti. Ho iniziato a essere accettata alle conferenze davvero buone per il mio campo di ricerca, ma le pubblicazioni veramente buone erano – e sono tuttora – ancora a venire.
Nel frattempo, Berlusconi se n’era andato, l’Italia aveva scoperto di essere in una profonda depressione economica, e il nostro sistema pubblico di università e ricerca subiva un rapido smantellamento. È un processo in atto, e questo non è il posto per discuterne. È sufficiente dire che l’Italia è, fra i paesi dell’Unione Europea, in fondo alla classifica per quanto riguarda la spesa per la ricerca. Il mondo accademico e della ricerca sta soffrendo ovunque, ma in Italia è un tipo di sofferenza particolarmente amaro.
A luglio compirò trentacinque anni e non ci sono molte probabilità che io possa, se non avere un lavoro accademico stabile, almeno vivere con la consapevolezza che potrò continuare a lavorare come ricercatrice e docente di filosofia grazie a una serie di lavori temporanei. Se volessi andare in maternità con il mio contratto italiano, in questo momento, non sarei pagata un euro. Dovrei smettere di lavorare al mio progetto di ricerca e ricominciare più tardi. Di recente, il sussidio di disoccupazione è tornato alla ribalta in Italia per diverse categorie di lavoratori, ma non per quelli come me. Se non trovo un lavoro, non appena scade il mio contratto, non avrò alcun reddito. La ragione? I contratti temporanei di ricerca non sono lavori. E allora cosa sono? Uno che vive negli Stati Uniti potrebbe far notare che la maternità retribuita e i sussidi di disoccupazione di solito non ci sono neppure qui. Vero. Bisogna però considerare che a ottobre 2015 il tasso di disoccupazione in Italia era dell’11,5 percento mentre negli Stati Uniti era del 5 percento. Forse i sussidi non aiutano veramente, non lo so, ma certamente l’Italia ha un problema (per quanto riguarda la maternità retribuita, penso che non si dovrebbe mettere in discussione). Mentre sto scrivendo sono seduta nella mia stanza a Washington. Sono negli Stati Uniti per dieci mesi con una borsa di studio che ho potuto affiancare al mio contratto italiano. Quando avrò finito, non potrò lavorare in questo paese per almeno due anni, per via delle regole sull’immigrazione.
La mia filosofia sta migliorando. Sono in una fase molto produttiva e spero di avere presto qualche pubblicazione in riviste davvero buone. Sono ancora un’outsider, però, ovunque vada. E ho scoperto che sono ancora più outsider di quanto pensassi durante quei primi anni da visiting student a Oxford. Il numero delle donne che fanno filosofia è piuttosto basso e c’è evidenza di pregiudizi a sfavore delle donne nelle valutazioni e nei colloqui di lavoro. Ciononostante, ora mi sento molto più a mio agio con la filosofia analitica. È il mio stile di lavoro naturale, ora. Non è facile, ma a questo punto è l’unico stile che conosco. Anche se ho pure scoperto che, per una donna, lavorare nell’ambito della filosofia analitica può essere un ulteriore fattore che contribuisce a creare un senso generale di non appartenenza. Questo perché – e ci sono dati e discussioni in corso in proposito – esser bravi ad apparire intelligenti è una risorsa di grande valore nel campo della filosofia e apparire intelligenti, secondo gli attuali standard dei filosofi analitici, implica emanare sicurezza, il tipo di sicurezza che aiuta molto se ti è richiesto di tirare di scherma a colpi d’argomenti in un’aula per seminari. Che le donne, quelli che non hanno la pelle bianca, quelli che non sono economicamente agiati e quelli che parlano inglese come seconda lingua possano trovare difficile tirare fuori questo genere di sicurezza quando entrano nelle aule internazionali della filosofia – perlopiù popolate di maschi bianchi e anglofoni – non dovrebbe risultare sorprendente.
Troverò lavoro come filosofa? Non lo so. È la grande domanda che mi affligge in questo momento. E tutte le altre questioni dove sono andate a finire? Alcune sono ancora qui e sono giunta a comprendere che resteranno con me per sempre se continuerò a fare questo lavoro, per quanto ora sembrino meno spaventose, addomesticate, parzialmente risolte: posso padroneggiare l’inglese abbastanza bene da lavorare a livello internazionale? Posso considerarmi una filosofa analitica? La questione delle immagini mi ha permesso di apprendere molto, e di comprendere che m’interessava saperne di più di arte che non d’immagini, in fin dei conti. E dunque non è più una questione così pressante. E la questione dell’arte che ha il potere di conferire significato? Penso di saperne parecchio ora. Forse ho persino qualcosa da dire. È una bella sensazione.
Tuttavia mi trovo in una situazione difficile: tutto questo lavoro, tutti questi sforzi, e non so se posso continuare a fare la filosofa di professione. Cercavo il motivo per cui l’arte può dare significato alla vita e ho finito per cercare di dare significato alla mia vita attraverso una metamorfosi in una filosofa dell’arte analitica, internazionale, che lavora in inglese. Dovrò rivolgermi all’arte per trovare significato e, più verosimilmente, consolazione, in caso finissi per abbandonare la filosofia?
Se fossimo in un film, questo sarebbe il punto in cui in sottofondo, un po’ seriamente, un po’ ironicamente, si sente una canzone tipo Eye of The Tiger (mi è piaciuto tanto come l’hanno usata in quella scena di Persepolis). Preferirei però concludere su una nota più neutra. Penso di essere diventata una persona più consapevole in tutti questi anni. Non importa quello che succederà, potrò sempre continuare a coltivare questa capacità di consapevolezza. La consapevolezza non rimpiazzerà il lavoro dei miei sogni, il fulcro della mia passione intellettuale. Non compenserà le difficoltà incontrate dalle donne, da chi non ha la pelle bianca e da chi parla l’inglese come seconda lingua e si occupa di filosofia analitica o, più in generale, lavora nel mondo internazionale della ricerca. Non aiuterà a cambiare lo stantio contesto politico, sociale e accademico in Italia. Non aiuterà a convincere gli attuali amministratori delle università britanniche, e le università americane riluttanti a finanziare le discipline umanistiche, che qualche lavoro in più per i filosofi potrebbe essere una buona idea (ancora un argomento per un’altra storia). La consapevolezza è semplicemente quello che mi fa sorridere quando penso al mio gomitolo: ora sembra un gomitolo soffice, innocente, domestico. Potrei prendere un gatto e lasciarcelo giocare.
Grazie a Bianca-Antonia Anechitei, Alain Bonacossa, Daragh McDowell, Matteo Plebani e Laurna Strikwerda.
[Traduzione dell’autrice dall’originale inglese]
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