Cultura profetica. Un dialogo con Federico Campagna
Federico Campagna è una delle voci filosofiche italiane (anche se vive e lavora a Londra) che ascolto con più interesse. A incuriosirmi è stata inizialmente la consonanza di interessi, perché di rado i filosofi contemporanei si avvicinano nella loro ricerca alla “cosa mistica”; poi mi ha conquistato la sua prosa filosofica e la qualità della sua ricerca. Avevo già avuto modo di discutere con lui attorno al suo libro Magia e Tecnica (Tlon) e sono felice di poter continuare la chiacchierata in occasione di questa nuova uscita, Cultura Profetica (Tlon), un libro se possibile ancor più inusuale, che prende le mosse dalla ricerca precedente per avventurarsi in nuovi territori. Campagna si inerpica sulle vette del Monte Analogo di Daumal per visionare un paesaggio cosmologico in rovina: la nostra realtà sta crollando e verrà sostituita da una nuova, ancora da profetizzare. Il nostro compito è dunque insorgere contro un mondo decadente per lasciare i nostri migliori resti al prossimo, i cui lampi aruspicano l’alba di un nuovo linguaggio. Quello di Campagna è un libro che ci lascia in un presente senza speranza, ma che trova un suo spazio positivo nel sovvertire la nostra concezione del tempo, che da illimitato ma esclusivo si rivela essere una infinita serie di segmenti che si irradiano da un centro che è ovunque e in nessun luogo.
Francesco D’Isa: Cultura Profetica è un testo inusuale anche dal punto di vista stilistico, perché all’andamento saggistico che da almeno secolo caratterizza i testi di filosofia mescola toni lirici, pamplhettistici e profetici, più un’inaspettata e ampia parte narrativa, una sorta di novella filosofica alla Daumal, spesso citato nel libro. È una scelta che ho molto apprezzato, perché penso che la filosofia debba tornare alla sua naturale varietà stilistica, ma sono curioso di conoscere i motivi della tua scelta.
Federico Campagna: Nella prima stesura, il libro cominciava proprio con quella storia. È una storia di avventura metafisica per adulti e per bambini, più una favola che una novella. In effetti questo libro analizza come sia possibile comunicare una complessa visione metafisica a un pubblico non solo adulto e non solo contemporaneo. Avrei voluto riuscire a scrivere io stesso qualcosa del genere, come già fecero i poeti epici e cosmologici dell’antichità. Ma alla fine ho ripiegato su quello che sapevo fare un po’ meglio: scrivere di filosofia, suggerendo una mappa concettuale attraverso la quale altri autori, più talentuosi e più coraggiosi di me, possano scrivere storie davvero profetiche. Io mi sono riservato solo l’aggiunta di una favola alla fine del libro. In quella favola, in realtà, si racchiude la visione metafisica che soggiace all’idea stessa del libro. ‘Cultura Profetica’ cerca di esaminare quale stile di scrittura, di arte o di musica sia in grado di superare le barriere tra civiltà diverse, ciascuna con il proprio ‘mondo’ e la propria idea di realtà. Ma quale mondo, e quale idea di realtà soggiacciono al mio libro? Insomma, io per quale mondo parteggio? Invece di presentare la mia cosmologia in forma asciutta e tecnica, ho deciso di farlo attraverso quella favola. La sua struttura circolare, con i capitoletti che si annodano su se stessi e infine si interrompono in un momento di silenzio, prova a raccontare che idea di realtà io tenga per me stesso come “vera”. I personaggi della favola la esplorano come avventurieri. Chi fosse curioso di conoscerla ha solo da seguirli.
Francesco D’Isa: Nel libro parti dal concetto di worlding, il “fare mondo” che fai risalire ad Heidegger. Lo definisci «un processo metafisico che distingue i diversi “qualcosa” individuali, creando così delle discontinuità in un piano di pura esistenza in cui non esistono divisioni». Si potrebbe dire che è un processo che estrae il mondo attuale dall’assenza di differenze, un “mondo senza di noi” privo di qualunque osservatore – una sorta di sunyata buddhista, che il metafisico affetta e ordina per costruire il suo mondo. Accanto al worlding nasce la sua linea temporale, o meglio segmento, perché ha sempre un inizio e una fine. Quello in cui ci troviamo ora, che chiami “modernità occidentalizzata”, è giunto alla fine e dobbiamo profetizzarne uno nuovo. Condivido gran parte della cornice metafisica (o meta-metafisica) da cui parti, e ti faccio la difficile domanda che pongo spesso anche a me stesso: perché l’esigenza di dividere il mondo, o, come lo definisci, di fare worlding? Perché il mondo dietro ai mondi si divide?
Federico Campagna: Il mondo dietro ai mondi, come lo chiami, È quello che si trova di solito all’inizio di un mito cosmogonico, quando si dice che in principio, prima che esistesse il mondo, non c’era niente, oppure c’era il caos, come dice Esiodo, o un’enorme distesa d’acqua, come Nun per gli Egizi e Tiamat per i Babilonesi. Cosi è, in effetti, la realtà in se stessa, oltre quel poco che noi possiamo vedere e capire di essa. Quello che a noi sembra la realtà, è in effetti solo un minuscolo frammento, altamente distorto dai nostri limiti cognitivi e profondamente plasmato dalle credenze metafisiche della civiltà e del gruppo sociale a cui si appartiene. La realtà, per come noi la percepiamo, è un oggetto artificiale e fittizio. Ma non abbiamo alternativa: la realtà di per se stessa, per come è in effetti, eccede infinitamente ciò che noi possiamo comprendere. Se volessimo incaponirci a cercare di vedere la realtà “vera”, dovremmo seguire la via dei mistici, che sono gli unici, autentici cercatori della verità al di là dei nostri limiti biologici, cognitivi e culturali. Ma i mistici pagano un prezzo molto alto per questa loro ricerca: la loro vita passa attraverso l’estinzione di sé e del mondo, quello che nel Sufismo si chiama fana. Solo dopo essere passati per l’estinzione, il mistico può ricostituire (baqa, per i Sufi), il proprio mondo. Non è cosa per tutti. La maggior parte di noi desidera passare il poco tempo che ci è concesso, non alla ricerca di una visione del vero caos che si spande al di là del mondo, ma invece cercando di vivere, se possibile felicemente. Per poter vivere, è molto utile avere un mondo. Per questo dal mare della realtà facciamo emergere la terraferma del mondo: sarà pure un’isola artificiale, ma è fatta apposta per viverci.
Francesco D’Isa: Ho molto apprezzato la critica che fai alla modernità occidentalizzata. Scrivi che: “la modernità occidentalizzata ha impostato il proprio processo di worlding sul principio del “linguaggio assoluto”, inteso come il modello alla base della totalità dell’esistente. Ciò che tiene insieme la civiltà della modernità occidentalizzata, al di là delle sue differenze interne, è l’assioma secondo il quale la totalità di ciò che esiste coincide con quanto rientra all’interno delle regole della classificazione linguistica”. Da qui indichi come assioma di questo mondo il principio di non contraddizione: “l’imposizione della legge di non contraddizione sull’esistente ha rimodellato a tal punto l’intero campo di ciò che è possibile pensare, fare e immaginare, da essere paragonabile al passaggio dal regno del titano Crono al regime degli dèi dell’Olimpo”. Ho trovato molto interessante anche il legame che delinei con la paura degli ibridi e della fluidità identitaria che deriva da questa sorta di fissazione tassonomica. Il nostro mondo (che è nostro anche se non lo vogliamo) adesso muore e ne va profetizzato uno nuovo. A differenza di altri mondi però quello della modernità occidentalizzata si è esteso su tutto il pianeta, se non ideologicamente per lo meno con la sua tecnologia, che porta con sé i suoi assiomi. Ci sono altri mondi oltre a quello occidentalizzato cui questo ha soffocato ma non strozzato le voci: il prossimo verrà da uno di loro? E avrà una nuova tecnologia?
Federico Campagna: Innumerevoli mondi sopravvivono sotto la crosta della modernità occidentalizzata. Ogni gruppo umano, anche il più piccolo, e ogni singolo individuo, ha la propria singolarissima variazione sull’idea di mondo. Sebbene, per poter vivere tranquilli, ci si sincronizzi spesso con l’idea di ‘mondo’ che costruisce il senso comune della civiltà in cui si vive, ciascuno rimane sempre, almeno un parte, fuori sincrono. Anche all’interno del nostro mondo contemporaneo esistono infinite variazioni da cui, un giorno, si ramificheranno modi molto diversi di immaginare il mondo. Se mi chiedi quale tra questi prenderà il sopravvento e diventerà “Il” mondo egemonico, temo di non poterti rispondere. Del resto, in questo libro, mi sono occupato di profezia e non di predizione – che è veramente tutt’altra cosa.
Francesco D’Isa: Come scrivi, il passaggio da un vecchio a un nuovo mondo richiede un “tetrafarmaco”. Questo si compone con la metafisica, che ordina e cataloga i mondi; lo sciamanesimo, che rifiuta il principio di non contraddizione; il misticismo, che rifiuta le differenze e riflette il mondo ineffabile; la cultura profetica, cui dedichi gran parte del libro. Nonostante la tua eccellente trattazione del tema quest’ultima è quella che metto a fuoco con più a difficoltà – in un certo senso il/la profeta mi sembra una via di mezzo tra l’indifferenziato del misticismo e l’afflato della metafisica, seppur nuova. Riesci a chiarirmi le idee?
Federico Campagna: Il “tetrafarmaco” è l’eredità che suggerisco di lasciare a chi verrà dopo la fine della nostra civiltà e si troverà a dover costruire un mondo dalle rovine del nostro. È una visione complessa della realtà, che combina tre metodi metafisici diversi, rappresentati dalle figure del metafisico, dello sciamano, del mistico. La quarta figura, il profeta, non incarna un metodo per la creazione di un mondo, ma rappresenta invece un modo per comunicare tra i mondi. Mentre le prime tre figure, combinate insieme, danno vita alla visione della realtà descritta dalla favola alla fine del libro, il profeta rappresenta invece il modo in cui è possibile comunicare questa visione al mondo che verrà dopo la fine del nostro. In tutto il libro, la domanda centrale è come sia possibile aprire una canale di comunicazione tra mondi diversi, che parlano lingue diverse e che abitano realtà metafisicamente diverse. Il profeta è quel genere di cantore che è in grado di raccontare cosmologie comprensibili al di là dei confini tra i mondi, e comprensibili soprattutto a chi abbia ancora un mondo stabile in cui vivere. Per questo nel libro spiccano tra i profeti poeti come Omero o artisti come Michelangelo, alla pari se non prima di figure più tradizionalmente interpretate come profetiche.
Immagine di copertina: ph. Hisham Zayadneh da Unsplash