Esiste un potere che ci allontana continuamente e che riduce l’esistenza e ogni forma di sofferenza a un fatto privato.
Probabilmente la quarantena accelera questo processo, anche se forse è l’unica risposta collettiva che siamo riusciti a dare come comunità, nonostante le fughe, i microfascismi, le delazioni degli untori, i provvedimenti di un governo che lascia trasparire gli accordi di protezione del capitale, sacrificando la salute generale e costringendo masse di lavoratori a spostarsi verso i luoghi di produzione, vanificando così la decisione collettiva di una tutela reciproca definita nell’isolamento.
A molti l’arrivo del virus, la quarantena, sembra un cambio di paradigma. Come faceva notare l’articolo del MIT apparso anche qui su cheFare, il metodo del distanziamento sociale come modello di prevenzione non scomparirà subito, anzi ce lo porteremo dietro per sempre in regimi più meno intensi, cambiando così il modo di creare e vivere le relazioni.
La strategia del potere consiste oggi nel privatizzare la sofferenza e nel nascondere la dimensione sociale
C’è addirittura chi nell’epidemia preannuncia la fine del capitalismo, quando però proprio questo genere di allontanamento sembra confermare una tendenza già in atto da anni, nell’attitudine di un potere che ci vuole sempre più distanti e isolati. Isolati soprattutto nelle nostre paturnie. Come sostiene Byung Chul Han ne L’espulsione dell’Altro, “la strategia del potere consiste oggi nel privatizzare la sofferenza e l’angoscia, e nel nascondere così la dimensione sociale, impedendone in tal modo la socializzazione e la politicizzazione. (p.97)
Al di là degli stati di eccezione come la quarantena, in questo articolo si vuole provare a descrivere una reazione, attraverso una pratica capace di aprire in ogni momento nuclei di comunità solide, spontanee e di resistenza, basate su relazioni profonde, nelle quali annientare le forze disgreganti prodotte da un contesto economico e politico che teme sempre di più i legami umani.
Ciò che verrà mostrato è la pratica dell’ascolto attivo. Un modo con cui ristabilire relazioni significative tra individui, nelle quali cade ogni agonia competitiva, favorendo momenti di sospensione delle regole appropriative dell’io, del mercato e del potere, e per ridare così ai rapporti umani un valore autonomo, sollevato dalla necessità di acquisire sempre qualcosa su qualcuno, un luogo aperto nel quale si respira insieme. Come sappiamo già da Foucault, con il dissolversi delle grandi opposizioni politiche, sia il potere sia la resistenza diventano localizzati. Laddove si esprime un potere è possibile perciò opporre una resistenza.
Questo principio è adeguato per dare terreno alla pratica che descriverò, ma mi preme dire sin da subito che quella dell’ascolto attivo è una tecnica usata anche nel coaching aziendale, cioè in quei processi di formazione del personale con i quali il mercato si appropria di dimensioni tipicamente umane, come le emozioni e appunto le relazioni.
La pratica dell’ascolto attivo. Un modo con cui ristabilire relazioni significative tra individui
Con il coaching il mercato trae profitto da dinamiche interpersonali capaci di favorire lo sviluppo aziendale attraverso le buone pratiche dell’amicizia. Inoltre, questo genere di ascolto si applica anche nelle strategie di marketing, per creare community, comprendere i bisogni dei acquirenti, risuonare con loro, farli sentire ascoltati, compresi, e successivamente più disponibili all’acquisto.
L’ascolto attivo aiuta a sviluppare empatia, fiducia nell’altro, nei collaboratori, e a alimentare un capitale umano affiatato e fedele, guidato da una leadership spogliata da funzioni gerarchiche e vicina invece a una forza che “ormai lavora solo comunicando”, come ci dice Mark Fisher in Realismo Capitalista, quando sottolinea come nel “postfordismo la catena di montaggio si trasforma in flusso di informazioni” dove “comunicazione e controllo si legano a vicenda” e “lavoro e vita diventano inseparabili”.
Quindi, se è vero che il potere è localizzato come pure la resistenza, è vero anche, come mostra ancora Byung Chul Han nel suo ultimo libro Che cos’è il potere?, che il potere è capace di assorbire dentro sé ogni opposizione, espandendosi in tutta la vita privata di ognuno e diventando in questo modo “assoluto” e “irresistibile”.
Questa premessa è d’obbligo, però non è una contraddizione di argomenti, ma una consapevolezza, perché l’auspicio è quello di riuscire a riappropriarsi delle relazioni, dell’umano e delle sue molteplici dimensioni, per “ricostruire”, come suggeriscono i sociologi Chicchi e Simone, “una trama affettiva e sociale non monetizzabile, in grado di generare nuove forme di solidarietà informale e nuove misure del vivere comune oltre l’Io-centrismo e i processi di individualizzazione.”
Ascoltare attivamente significa partecipare all’esistenza altrui offrendogli in dote doni preziosi, ma allo stesso tempo più che reperibili, come l’attenzione, la creatività e l’immaginazione. È possibile praticare l’ascolto attivo in ogni circostanza, con amici o sconosciuti, e creare, appena ne abbiamo l’occasione, delle comunità agili e resistenti, non sulla base di un accordo ideologico, ma sulla capacità creativa che ogni essere umano possiede di immedesimarsi nell’esperienza dell’altro attraverso l’immaginazione.
L’ascolto attivo consiste nel ricreare nella nostra mente l’ambiente emotivo dell’altro per riuscire a leggerlo tra le righe e immaginare cosa egli pensa mentre ci parla. In un certo senso dovremmo provare a indovinare, a reinterpretare le parole che sentiamo, perché è questa capacità creativa che sviluppa la fiducia, la comprensione, l’empatia e comunità solida tra esseri umani.
Per ascoltare attivamente non basta disporre l’orecchio alla vocalità dall’altro. Questa è una forma passiva di ascolto che riguarda solo aspetti logici e superficiali della comprensione. È necessario invece sforzarsi a estrarre immagini mentali vicine ai contesti dove l’altro agisce per ricostruirne i modelli d’azione. Prendendo un esempio dal coaching che, ricordiamo, viene usato per far accettare ai soggetti le pressioni dell’ambiente lavorativo, se uno vi dice “sono stanco di andare a lavoro”, invece di rispondere con frasi del tipo: “sai? se non lavori non mangi”, che banalizzano l’esperienza altrui e lo ricacciano velocemente in sé stesso, proviamo a immaginare la sua frustrazione, a pensare che forse vorrebbe fare altro nella vita o che non ha un buon rapporto con i colleghi.
Dice Mark Fisher in Realismo Capitalista: nel “postfordismo la catena di montaggio si trasforma in flusso di informazioni”
Se riusciamo a spiegare le immagini che stanno dietro le sue parole, si sentirà compreso, e magari la prossima volta avrà più voglia di andare a lavoro, sopporterà meglio la frustrazione, quantomeno non si sentirà solo. È un modo per offrire all’altro un sostegno, per perdersene cura, per dargli una boccata d’aria psicologica. Questo genere di comprensione fa crollare le forme oppositive che ci atomizzano e ci allontanano. L’uso di questa pratica in contesti aziendali è utile per smorzare i toni di una competizione interna dovuti a una predominanza egoica dei soggetti di prestazione, che con la loro volontà di affermarsi escludono ogni possibilità di collaborazione o apertura all’Altro.
Come succede spesso, capita che la gente parli per ore senza capirsi. Nel migliore dei casi ognuno aspetta che l’altro finisca per intervenire e rispondere. Si pensa a quello che si deve dire invece di ascoltare ciò che viene detto. In questo modo ci si autoesclude dalla relazione facendo all’altro il nostro dettato autobiografico. Così ognuno rimane per sé, dentro la propria bolla autistica. Non c’è rapporto anche se si sta insieme, non c’è comunità, ma c’è sempre l’uno-senza-l’altro, due individualità che cercano di avere ragione, anziché venirsi incontro e trovare un luogo comune di accoglienza e comprensione.
Questo succede perché mentre si parla siamo ancora nel gioco dell’io, al quale interessa solo imporsi, avere un’acquisizione sull’altro, differenziarsi, non subirlo, provando anzi continuamente a escluderlo per affermare se stesso. Laddove c’è la presenza dell’io, infatti, non c’è mai spazio per l’altro. “L’ego è incapace di ascoltare” ci dice anche Byung Chul Han, “lo spazio dell’ascolto, in quanto spazio di risonanza dell’altro, si dischiude soltanto nella sospensione dell’ego.”
Ovviamente il mercato, nonostante stimoli l’ottimizzazione e la competizione, si è accorto che è controproducente lasciare che i singoli individui gestiscano in solitaria la produzione. Perciò i corsi di team building, di leadership orizzontale e quant’altro, provano sia a livellare le differenze sia a promuovere la particolarità, a conformarsi e a distinguersi, sotto il nome però di un unico marchio/famiglia/gruppo al quale si cerca di appartenere.
I corsi di team building tendono a livellare le differenze e a promuovere la particolarità sotto il nome di un unico marchio/famiglia al quale si cerca di appartenere
Tornando al quotidiano di tutti, dove nessuno è comunque messo al riparo da un principio di prestazione ormai esteso in ogni ambito della vita, se si vuole entrare davvero nell’universo di un’altra persona è pratico perciò evitare l’autobiografia. A volte pensiamo che mettersi nei panni dell’altro significhi ricondurre tutto alla propria esperienza, fare un salto nella memoria per rivivere una situazione simile a quella che ci viene raccontata e poter dire “so come ti senti perché è successo anche a me”.
Pensieri del genere non sono funzionali ai fini di una comprensione reciproca, perché l’attenzione è ancora diretta verso i nostri contenuti interni. La parola dell’altro non riuscirà a penetrarci perché siamo chiusi in noi stessi, nel nostro mondo, nei nostri modelli d’azione. Così come quando facciamo qualcosa per qualcuno a cui vogliamo molto bene, ma le nostre azioni non producono l’effetto desiderato, l’altro rimane triste se volevamo sollevarlo oppure indifferente ai nostri sforzi, succede perché siamo ancora dentro ai nostri schemi, perché facciamo quello che piacerebbe esser fatto a noi, non all’altro.
Per mettersi nei panni di un’altra persona è necessario prima svuotarsi di sé, uscire dai paradigmi personali per entrare in quelli di chi abbiamo di fronte, far cadere le sovrastrutture pregiudiziali con le quali interpretiamo il mondo e noi stessi. Fare il vuoto di sé significa disfarsi dell’io, creare uno spazio propedeutico all’accoglienza dell’altro per farci riempire dalla sua alterità. Questo processo di denudazione de-interiorizza l’esperienza di chi ascolta, producendo una larga zona ospitale dove l’altro si sente a casa.
Se ci si mette attivamente da parte, invece di valutare con punti di vista soggettivi la storia di chi parla e si prova quindi a descrivere ciò che vediamo attraverso le sue parole, egli troverà nelle nostre immagini elementi familiari al suo vissuto. Più alto sarà il nostro desiderio di capire e di produrre i contorni della sua storia, più egli si sentirà compreso e si fiderà di noi.
In questo modo aprirà le mura di cinta attorno a quell’area sensibile che cerca di difendere, senza avere il timore di fallire nel suo desiderio di essere accolto e riconosciuto. Nessuno dei due potrà più sentirsi escluso, incompreso o isolato in questo nuovo mondo mentale, immaginario e reale che condividiamo. “Ascoltare significa qualcosa di completamente diverso dallo scambiarsi informazioni,” ci dice Han, nell’ascolto non avviene anzi alcuno scambio in generale. Senza prossimità, senza ascolto non si forma alcuna comunità.” Nella pratica dell’ascolto attivo, infatti, la logica è utile per capire il discorso, l’immaginazione per comprendere lo spirito.
È lo stesso principio che sta alla base della letteratura. Leggere non è mai un’attività passiva. L’autore delinea il carattere del personaggio con poche parole, il resto lo facciamo noi con la nostra immaginazione. È così che si viene a creare una speciale alleanza tra lo scrittore e il lettore, una vera e propria amicizia, una comunità.
Come diceva Salinger attraverso le parole del giovane Holden, “quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Non è un caso infatti che leggere sviluppi l’empatia, la comprensione e la solidarietà tra il lettore e l’autore. Chi ci comprende a questo livello aumenta le riserve di fiducia che noi riponiamo nella sua persona, perché fa si che quanto è importante per noi lo è anche per lui.
Nella comunicazione attiva “io” e “tu” si mescolano senza confondersi
Nella comunicazione attiva “io” e “tu” si mescolano senza confondersi. Ognuno rimane ben saldo in sé proprio perché la relazione stabilizza la coscienza degli interlocutori in un gioco di riconoscimento reciproco. Come ci insegna tutta la tradizione fenomenologica, è lo sguardo attento dell’altro che ci fa esistere dandoci consistenza e dignità. Io incontro e sento me stesso solo grazie all’incontro con l’altro. Nello spazio creato dell’immaginazione i soggetti riescono perciò a combinarsi in una terzietà che li comprende e li dissolve. L’opposizione binaria io-io viene contenuta nell’unità della relazione.
Il due si fa Uno nel Tre del rapporto. Allora si crea una comunità nella quale nessuno lavora più per sé, ma lo sforzo è diretto verso l’altro, in una nuova unità sinergica protratta nell’immaginazione. Così sarà possibile parlare con la stessa voce, vivere la stessa condizione esistenziale in una mimesi dinamica che si sviluppa reciprocamente nelle nostre menti. A questo punto si arriverà a un grado di scambio in cui le parole faranno a meno del loro significato informativo, perché porteranno un repertorio di immagini con il quale ci ritroveremo a vivere lo stesso scenario drammaturgico.
Nell’ascolto attivo il dialogo non assume la forma di una notifica da schedulare, ma diviene comunicazione di una profondità diretta da anima a anima. In questo modo, l’ascolto attivo può creare in ogni momento una reazione intima alla solitudine contemporanea e diventa terapeutico non solo per chi parla ma anche per chi ascolta. Sbilanciare l’attenzione sull’altro ci alleggerisce dalle tensioni che provengono dal nostro interno, obbligandoci a uscire fuori di noi e a trovare nell’altro un’area comune di riconoscimento.
Spesso gli stati depressivi consistono proprio nell’introiezione delle energie psichiche con le quali avremmo dovuto investire gli oggetti esterni per farli centri del nostro interesse. “L’eccessivo e narcisistico riferimento a sé”, dice Byung Chul Han, prendendo in prestito i concetti della psicoanalisi freudiana, “genera un sentimento di vuoto […] L’accumulazione narcisistica della libido egoica conduce alla perdita della libido oggettuale, cioè della libido che occupa l’oggetto. L’angoscia sorge quando nessun oggetto è più occupato dalla libido. Il mondo diventa in tal modo vuoto e privo di senso. A causa della mancanza di un vincolo oggettuale, l’io viene rigettato su se stesso, e così si spezza. La depressione deve essere ricondotta alla congestione narcisistica della libido rivolta all’io.”
Più si alimenta questa interiorità con energie che sarebbero dovute fluire fuori, più viviamo il senso di separazione dal resto delle cose. Spostare l’attenzione sugli altri significa trovare nuovi stimoli, riattivare l’interesse per il mondo e dissolvere questo solipsismo obbligato all’interno del quale siamo costretti a vivere e a liquefare la coesione sociale privatizzando ogni tipo di esperienza.
L’amicizia come capacità di rispecchiamento dell’uno nell’altro, è una forma di resistenza a questo genere di esclusione forzata al quale volontariamente o involontariamente ci sottoponiamo. L’apertura all’altro è salute. Nell’ottica di un sistema che mette tutto a valore, il tempo dell’ascolto è considerato “improduttivo, una perdita di tempo”, perché le relazioni svolte a questa intensità non sono né quantificabili né monetizzabili.
Anche se il potere ha compreso di poter trarre profitto dalle relazioni, quelle che nascono da un ascolto attivo sono uno dei casi in cui il mercato difficilmente può avere acquisizioni, poiché mette in campo delle profondità che la superficie liscia e operazionale del potere non può raggiungere, bloccando ogni volontà appropriativa sulla vita. Così, immaginare cosa l’altro pensa mentre ci parla, avere la più sincera volontà di capirlo, è un modo per aprire una prossimità all’interno della quale si scopre una vicinanza, un immaginario comune e “gratuito” che non riuscivamo a vedere.