Non fidarsi è meglio. O è peggio?
Non ci fidiamo più degli esperti. Lo ripetiamo da circa dieci anni. Gli economisti, i politici, i giornalisti. Hanno sbagliato tutto. Non hanno visto arrivare la grande recessione, l’hanno causata, non sanno uscirne. Già, come si esce dalla cosiddetta “crisi della fiducia”? In questi anni la reazione prevalente da parte degli esperti è stata un’invocazione: «Dobbiamo ricostruire la fiducia». E come si fa?
Ci si potrebbe rivolgere a un’esperta. Onora O’Neill, 76 anni, irlandese, docente emerita a Cambridge, baronessa, allieva di John Rawls, studiosa di Kant, membro indipendente della camera dei Lord, da poco premiata con un milione di dollari per il suo lavoro. Tra le motivazioni del premio: per il rigore dei suoi studi e per gli sforzi nell’applicarli nel mondo reale; eccezionale nel combinare la pura teoria con la sua messa in pratica; ha prestato un servizio sia intellettuale sia politico; un premio per la comprensione di un mondo trasformato da rapidi e profondi cambiamenti sociali; una delle più eminenti filosofe morali al mondo.
La fiducia è uno dei temi centrali nella riflessione di Onora O’Neill. Quindici anni fa le sue conferenze per la radio della BBC la resero nota al grande pubblico, furono raccolte in un volume di un centinaio di pagine, tradotto in italiano come Una questione di fiducia (Vita&Pensiero, 2003). La sua lezione si può trovare condensata in uno spazio ancora minore: dieci minuti di una limpida Ted Conference al parlamento inglese.
Dieci minuti in cui Onora O’Neill parte da tre luoghi comuni sulla fiducia:
- C’è un declino della fiducia.
- Dovremmo fidarci di più.
- Dovremmo ricostruire la fiducia.
E li smonta. Uno per uno. Perché crediamo che la fiducia sia in declino? «Analizzando i dati dei sondaggi nel tempo, non ci sono molte prove a sostegno», osserva O’Neill. Le categorie di cui non ci fidavamo trent’anni fa, sono le categorie di cui non ci fidiamo oggi: politici e giornalisti soprattutto. Dovremmo fidarci di più? Ma se ci siamo fidati anche troppo. Se pensiamo ai crack delle banche, i clienti che hanno perso i loro risparmi si erano affidati a istituti considerati affidabili. Non abbiamo bisogno di più fiducia ma di fiducia ben riposta. Non ha senso fidarsi di più se abbiamo a che fare con truffatori o ciarlatani, per esempio. E non dovremmo neanche porci come obiettivo ristabilire la fiducia. Questo è un punto che riguarda proprio la grammatica del concetto: la fiducia è qualcosa che ci viene dato dagli altri, come possiamo ricostruire qualcosa che ci viene dato?
Per O’Neill la vera questione da mettere al centro è l’affidabilità. In particolare, dal punto di vista del cittadino, il problema è giudicare se e quanto è affidabile un’istituzione o una categoria di esperti in una determinata circostanza. Dal punto di vista degli esperti quindi la questione sta nel come fornire agli altri le basi per dare fiducia; in altre parole: come mostrare di essere affidabili.
La sfiducia negli esperti non è una novità. «Le teorie per cui gli esperti erano impegnati in un qualche genere di complotto contro la gente o l’interesse pubblico erano ampiamente diffuse già negli anni Ottanta», ha ricordato di recente O’Neill, quindici anni dopo le sue celebri lezioni. Nell’articolo pubblicato dal Washington Post la filosofa lo riconosce: la sfiducia di oggi è in un qualche modo più problematica rispetto al passato. Sembra quasi non rimediabile. Abbiamo introdotto nuove regole, ma sembra non sia servito a molto. Si chiede dunque: «I crescenti sospetti nei confronti degli esperti sono la conseguenze inevitabili delle tecnologie e della comunicazione digitale?».
Secondo O’Neill, il problema, più che nelle tecnologie in sé, sta nella rottura di pratiche e standard nella comunicazione seguita alla loro caotica introduzione. Le tecnologie con cui abbiamo a cha fare hanno permesso un’enorme diffusione di contenuti la cui affidabilità è difficile da giudicare. L’etica della comunicazione riguarda gli standard che gli atti linguistici dovrebbero rispettare; le nuove tecnologie rendono difficile persino identificare quali sono gli atti che dovremmo considerare, ancor prima di valutarne l’affidabilità.
Non è la prima volta che l’introduzione di una nuova tecnologia stravolge le pratiche abituali. Il Socrate di Platone se la prendeva con la scrittura, che avrebbe irrimediabilmente danneggiato la memoria e reso irresponsabili gli autori delle parole che il testo rendeva irreperibili. Poi abbiamo sviluppato pratiche per valutare l’affidabilità di un testo scritto. E così fu per la stampa. All’inizio il caos, poi le regole vennero riscritte per stabilire le responsabilità nei testi a stampa di autori, editori, stampatori. Le difficoltà non erano generate dalla tecnologie in sé, ma dalla rottura delle vecchie pratiche causate dall’innovazione.
Ora, con la comunicazione online, ci troviamo in una situazione analoga. Le misure culturali e legali di cui finora ci siamo serviti per valutare affidabilità e responsabilità nella comunicazione si sono ormai mostrate inadeguate. Con i vecchi strumenti non siamo più in grado di dire chi è onesto, chi è competente, chi è affidabile. Siamo raggiunti da informazioni di cui non conosciamo la fonte, quelli che ci sembravano professionisti o esperti si rivelano falsificatori o mistificatori, quello che sembrava originale è plagiato, ciò che sembra privato si rivela pubblico.
Certo, i vantaggi delle nuove tecnologie sono indubbi. «E c’è una notevole riluttanza nel riconoscere la necessità di ricostruire standard eticamente adeguati per la comunicazione. Siamo ancora in una fase di cenni generici e banalità», scrive O’Neill. Ci sono ancora quelli che la filosofa chiama «cyber-romantici». Chi crede che qualsiasi limitazione alla comunicazione online sia sbagliata: «dimenticano che la libertà di espressione è sono uno dei molti standard necessari per un’etica della comunicazione».
Ancora: come se ne esce? La filosofa non crede alle ricette tradizionali. Investire sull’alfabetizzazione digitale potrebbe anche essere utile, potrebbe renderci meno esposti a essere ingannati, ma non possiamo aspettarci che sia il rimedio ai problemi della comunicazione online. Al momento non siamo nemmeno in grado di fare delle distinzioni fondamentali. Per esempio, non sappiamo distinguere con chiarezza tra piattaforme online ed editori online, e così non sappiamo neanche a chi attribuire la responsabilità. I social network sono responsabili dei contenuti che vengono pubblicati dagli utenti? L’articolo pubblicato sul Washington Post si chiude con questa frase: «C’è molto lavoro da fare».
Finora la risposta più frequente data al bisogno di affidabilità è stata la richiesta di maggiore trasparenza, da parte delle istituzioni e degli esperti. È stata una strategia vincente? «Le informazioni sui singoli e sulle istituzioni i cui messaggi dovremmo valutare non sono mai state così abbondanti. Accessibilità e trasparenza sono oggi possibili in una misura che le epoche passate potevano a mala pena sognare. Siamo sommersi dai dati sul funzionamento della pubblica amministrazione e le politiche del governo». Onora O’Neill questo lo diceva già quindici anni fa. Oggi è ancora più vero.
La quantità di informazioni a nostra disposizione è aumentata ulteriormente. Ci fidiamo di più? No. Ormai nessuno pensa che quelli che dieci anni fa abbiamo definito Big Data abbiano portato Big Trust. Più trasparenza vuol dire più informazioni. Ma più informazioni non vuol dire più fiducia. Non è così che funziona. Al contrario, più sono le informazioni e i dati a disposizioni e più aumenta la possibilità di generare confusione e disorientamento. Dunque, la paura. Dunque, la sfiducia. Da ciò segue che meno sappiamo meglio stiamo? No, il problema è avere informazioni pertinenti e le competenze per valutarle. Tutte cose che non dipendono dalla trasparenza.
Ci sono poi altri effetti collaterali: la trasparenza può spingere le persone a essere meno oneste. Paradossale? Non troppo: chi sa che tutto quello che dice e scrive diventa di pubblico dominio, può falsificare la verità. I dati possono essere open e i dibattiti politici in streaming, questo non significa che le informazioni fornite o i discorsi siano esenti da falsità. Le vicende politiche degli ultimi anni, italiane e non solo, dovrebbero avercelo mostrato. Questo ci porta al cuore della questione: «Per far rinascere la fiducia, l’importante non è ridurre la segretezza, ma la disonestà e la menzogna», sostiene O’Neill. Vaste programme. Come scovare la falsità? Spesso siamo di fronte a informazioni troppo complesse e specialistiche, oppure non abbiamo la possibilità di risalire alle fonti primarie e alle loro credenziali.
Non c’è una soluzione semplice. «Diamo e neghiamo fiducia – continua O’Neill – non perché disponiamo di un fiume di informazioni, ma perché riconduciamo informazioni specifiche e specifiche iniziative a fonti particolari, sulla cui sincerità e affidabilità possiamo fare alcuni controlli. La fiducia ben fondata è figlia della ricerca attiva, più che della cieca accettazione. Se vogliamo una società in cui la fiducia sia possibile, dobbiamo cercare modi di controllo attivo di quanto proponiamo e ci viene proposto».