Cos’è il Festival Inequilibrio, un progetto culturale per ‘perdere tempo’
I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.
«Tempo perso», «tempo libero», «tempi morti». Il rapporto della nostra specie con quello che percepiamo come lo scorrere del tempo è singolare. Nella sua migliore accezione è libero, liberato da altro e pronto a ricadere in quell’altro allo scoccare di un’ora data; nella peggiore, morto, inutile, insostenibilmente noioso.
Negli annunci di vendita, appena prima del numero di telefono, l’ultima raccomandazione è immancabilmente: «no perditempo». È una figura fantasiosa, quella del perditempo: si potrebbe quasi immaginare che esista una sorta di massoneria segreta, i cui affiliati siano votati alla perdita del tempo proprio e altrui, preferibilmente nelle ore pasti.
L’ossessione umana per le sabbie della clessidra in cui passano i secoli ha, come molte altre, a che vedere con la morte e col desiderio di salvarne qualcosa. Il tempo è un patrimonio da spendere, da non sprecare, da guadagnare, da riscattare: perché volerne perdere?
Questa domanda si colorisce di sfumature interessanti nella riflessione di Fabio Masi e Angela Fumarola, co-direttori del Festival Inequilibrio, che da ventidue anni anima con i fantasmi e le scintille del teatro i locali di Palazzo Pasquini a Castiglioncello, in Toscana.
Prima che un festival di teatro, Inequilibrio è un progetto culturale: «Immaginiamo questo festival come uno spazio che apre la possibilità del tempo perso. Cioè la possibilità per il pubblico di, letteralmente, perdere tempo assieme agli artisti: di creare, e vivere, un momento non monetizzabile, non produttivo» racconta Masi, e prosegue Fumarola: «Ci sono dei valori, come quello della relazione e dell’incontro, che non sono misurabili in termini economici. Per crearli è necessario porre in essere delle condizioni di spazio, tempo e umanità in grado di moltiplicare le possibilità di pensiero, di costruire delle oasi di sospensione in cui venga meno la necessità produttiva e scompaia la misura economica. Si tratta di luoghi in cui si crea dispersione. Ma è una dispersione di sguardi: in quel luogo si ha la possibilità di fermarsi, e di disperdersi».
L’interrogazione sulla materia profonda del tempo non è di marca novecentesca, basti pensare alla ben nota locuzione latina Tempus fugit, che proviene da un verso delle Georgiche di Virgilio («Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus»); ma certo appartiene al Novecento, e ancor più a questi primi venti anni del nuovo secolo, una ossessione di stampo industriale per l’impiego del tempo, straripata in ambiti della vita con cui in altri secoli non ebbe nulla da spartire.
La nostra lingua, testimone fedele delle peripezie della società, abbonda di esempi: si «investe» in una relazione, si «sfrutta» uno spazio, si «guadagna» la fiducia di qualcuno, si «capitalizza» un’esperienza. Dal turismo compulsivo alle applicazioni per incontri, il nostro mondo è abitato da una tensione verso la collezione e la produttività, a cui pare far da contrappeso principalmente un orrore del vuoto, della lentezza e dell’assenza di azione.
Non a caso uno dei temi sotterranei della scorsa edizione di Inequilibrio, svoltasi a giugno, è stato quello della ‘sovversione’, intesa come tradimento di un’idea precostituita non solo di festival, o di teatro, ma delle modalità con cui, in questo momento storico, stiamo assieme.
È in questo punto che, nel progetto artistico e culturale del Festival, il ‘tempo perso’ incontra la società: attraverso il teatro, primo specchio della civiltà umana, si propone al pubblico la possibilità di vivere un luogo e un momento secondo leggi completamente diverse da quelle di cui tutti sperimentiamo la pressione continua e apparentemente inviolabile. L’intento è un rovesciamento di segno pressoché totale degli insegnamenti ricevuti da bambini, e dei suggerimenti che la società in cui siamo immersi ci porge in molti dei suoi contesti: «sbrìgati», «non perdere tempo», «non ti distrarre».
L’arte e i suoi processi si dimostrano allora, una volta di più, gli strumenti da salvare, incoraggiare e affilare per immaginare uno stato di cose diverso da quello attuale. E ‘perdere tempo’ si rivela un’attività più gratificante, vivificante, più necessaria di quanto si sarebbe tentati di pensare.
Fabio Masi, come ha visto cambiare il Festival negli ultimi anni, sotto la sua co-direzione con Angela Fumarola?
Credo che il cambiamento più importante, a partire dal 2014, abbia riguardato il clima dello stare assieme all’interno del Festival. Alcuni fra gli artisti, gli operatori, i giornalisti e gli spettatori hanno cominciato a dirci: quando veniamo a Castiglioncello, ci sentiamo a casa. È un risultato che ci fa molto piacere.
Il secondo cambiamento riguarda l’identità artistica del Festival, ed è legato alla proposta che in questi anni abbiamo cercato di mettere in atto: è un’identità che nasce soprattutto dai processi di residenza artistica, che sono il frutto di un lavoro sotterraneo continuo per intrecciare rapporti fra artisti, festival e territorio.
Un’identità che nasce soprattutto dai processi di residenza artistica
Questa struttura ha dato vita – oltre che, naturalmente, agli spettacoli – a progetti che nascono al di fuori della progettualità tradizionalmente intesa, ‘quadrata’, che si muovono un po’ fuori cornice: in questo senso il Festival è ‘sovversivo’, perché dà vita anche a esperienze che non sono totalmente programmate a tavolino, che non sono fatte di risultati e di presentazioni, ma di processi aperti.
Come si persegue questa progettualità ‘sovversiva’ in relazione al pubblico e al territorio?
Dice Claudio Morganti, che «lo spettacolo intrattiene, il teatro trattiene». Noi vogliamo trattenere le persone, e cerchiamo di farlo lavorando su due fronti, attraverso la nostra associazione Armunia: da una parte con un lavoro costante di disseminazione, consolidamento, mantenimento sul territorio, attraverso residenze e seminari lungo tutto il corso dell’anno; dall’altra mettendo a disposizione degli artisti il tempo e le modalità che permettano loro di creare.
Non è stato facile costruire la fiducia con il pubblico, incentivare la curiosità, rompere alcuni steccati: sono cresciuto a Castiglioncello, e so che Palazzo Pasquini è sempre stato visto come un castello inaccessibile, anche se negli anni Ottanta già ospitava spettacoli di danza, teatro, cabaret. Le cose stanno cambiando: quest’anno, ad esempio, venti persone hanno partecipato al laboratorio di Giuliano Scabia, senza sapere chi fosse, senza sapere che è un maestro del teatro e della poesia.
Certo, parliamo di decine di persone, non centinaia, ma non è meno importante: è il lavoro continuativo sulle piccole quantità che poi crea grande qualità. Ed è permettendo agli artisti di lavorare su un piano di qualità artistica elevata, che infine si crea una ricaduta progettuale sul territorio.
Quali sono le conseguenze di questa modalità progettuale sul lavoro degli artisti?
Gli artisti producono lavori inattesi, qui. Non sai cosa aspettarti. Danno vita a spettacoli e progetti molto diversi da quelli che farebbero nascere lavorando nel contesto di un teatro stabile, ad esempio. Questo succede per la specifica libertà di spazio e tempo che c’è in un festival.
Forse è giusto che alcuni artisti e alcune opere non diventino una questione di massa. Non si tratta di creare esperienze elitarie, ma di riconoscere il valore dei contesti raccolti, che non sono e non diventeranno mai di massa. Un festival, per la sua specifica natura, può e deve permettersi questo atto di coraggio: scegliere, e sostenere, spettacoli che possono anche deludere un pubblico. Per noi, realizzare un festival vuol dire proporre questa libertà di sperimentazione a noi stessi e agli spettatori. Bisogna dare fiducia al pubblico.
Angela Fumarola, come funziona la politica culturale del Festival Inequilibrio?
Un festival è un atto politico: è uno strumento attraverso il quale si disarma il silenzio. Dunque, avere la direzione artistica di un festival è una grande responsabilità. Noi ci poniamo in una condizione di ascolto: da una domanda, da una percezione, si prova a costruire la giusta relazione con l’artista. Normalmente si tratta di domande universali, che riguardano la solitudine, la relazione con l’altro, il maschile e il femminile, l’infanzia… a partire da questi quesiti si costruisce uno schema di laboratori, incontri o spettacoli che fanno incontrare l’artista al territorio.
Un percorso che parte da una domanda ne crea molte altre. Ad esempio, nel momento in cui si propone uno spettacolo, ogni spettatore riceverà la sua domanda, che potrebbe anche non essere la stessa che aveva in testa l’attore, o il regista, o l’autore: si crea una risonanza, una moltiplicazione di domande, che costituisce il nucleo della relazione direzione-artista-pubblico.
In questa struttura di relazioni, qual è il ruolo dell’operatore culturale?
Quello di stare nelle cose. In questo ‘stare’, c’è prima di tutto uno spostarsi, un mettersi da parte: l’operatore culturale crea le condizioni che servono all’artista. A patto, però, che a monte abbia un’idea, una visione, che determina la scelta delle sue collaborazioni.
La prima condizione è quella dell’ascolto. Solo così si creano le condizioni perché le immagini dell’artista possano essere concretizzate
Dunque, la prima condizione è quella dell’ascolto. Sulla base di questo ascolto si creano le condizioni perché le immagini dell’artista possano essere concretizzate, e l’unico modo per farlo è andare nei luoghi da cui scaturiscono le sue domande, provare ad abitarli assieme a lui, o a lei, e creare una relazione con quel territorio e con chi lo vive. Se è il mare con i bagnanti, se è una piazza con le persone che frequentano quella piazza. Ecco, noi offriamo il know-how tecnico logistico, ma non basta: bisogna stabilire un’alleanza con quel luogo, per essere accolti spazialmente e umanamente e creare le condizioni perché qualcosa possa accadere.
Quali sono le difficoltà di portare avanti un progetto culturale di questo stampo?
Spettacoli da venticinque persone, costruiti in questo modo, non danno risposte a un sistema basato su algoritmi per grandi numeri. Ma Castiglioncello è un’oasi felice: il Festival è un luogo protetto, non riceviamo condizionamenti, siamo dei privilegiati.
Questo privilegio presuppone impegno, lavoro, ricerca costante, e domande continue: per me, finché sei nella posizione di porti domande sei in una condizione privilegiata. È chiaro che laddove incontriamo delle resistenze, le difficoltà diventano sfide a rimodulare i parametri senza rinunciare alla nostra idea di festival. Ci sono delle regole, che possono essere rispettate trovando dei punti di mediazione per fare spazio a valori che esulano completamente dai numeri.
L’energia per scegliere di restare indipendenti te la dà la fiducia costruita con il pubblico, ma anche con i colleghi: gli operatori, i giornalisti, la presenza di una comunità intera che va in una stessa direzione. È importante, in questo momento storico, essere uniti. In verità, non c’è alternativa: per permettere alle nostre domande di moltiplicarsi liberamente, senza rendere conto a un sistema che vuole le sue risposte, dobbiamo guardarci, riconoscerci, riunirci. Ecco il significato di essere sovversivi.
Immagine di copertina: ph. Antonio Ficai