L’astrattismo nel graphic design
Per molti aspetti, tutta la grafica è astratta. Soprattutto quella di derivazione modernista esibisce spesso cerchi, quadrati, linee, tratteggi, forme geometriche che il computer genera con facilità e che non erano mai state la norma prima della rivoluzione pittorica di cento anni fa. Le basi poste al graphic design negli anni Trenta del secolo scorso nascono infatti nello stesso clima culturale di Mondrian, di De Stijl e delle correnti che vogliono razionalizzare l’arte, scostandosi dalla figurazione.
Ancora oggi la grafica continua a muoversi, spesso, su questi binari: una disposizione di pezzi, parlante perché impone a quei pezzi relazioni sensate. Nel caso dei progetti esclusivamente tipografici poi, se ci discostiamo da quello che le parole “dicono”, le composizioni vengono apprezzate quasi sempre anche come campiture espressive: pieno e vuoto, alto e basso, leggero e pesante, grande piccolo e così via. Ritmi visuali da godere in maniera non dissimile da come si segue una struttura musicale.
L’astrattismo di cui voglio parlare è però più circoscritto e riguarda la grafica editoriale. Negli ultimi cinquant’anni le copertine dei libri sono divenute sempre più figurative, anzitutto per l’impiego massiccio di fotografie e illustrazioni. Ogni Paese ha il suo gusto nazionale che è anzitutto una questione di abitudini visive. Ci aspettiamo che i libri siano fatti in un certo modo e queste aspettative sono tanto più stringenti quanto più i libri entrano nel flusso della grande distribuzione commerciale, sono cioè mostrati accanto a migliaia di altre proposte di fronte allo sguardo distratto degli avventori. In teoria nella grafica ogni cosa è possibile, ma progettare libri consiste nel tener conto di questa distrazione e inglobarla nei processi creativi, visto che questa mancanza di attenzione non è una colpa o uno stato di minorità culturale, quanto una condizione storica: siamo circondati da troppe cose, la nostra è una distrazione tecnica ancor prima che morale.
A questo proposito ci sono una manciata di norme che subito, senza pensarci su, comunicano la temperatura del libro. A colpo d’occhio, come si usa dire. Per esempio in Italia ci si aspetta dai romanzi che il titolo sia centrato; e quando invece lo troviamo sbandierato la copertina sembra un’edizione economica oppure somiglia alla saggistica. Quando un titolo è importante, poi, si usa spesso una figura che copre l’intero piatto di copertina,: l’immagine è “al vivo” come si dice in gergo. La foto incorniciata invece ricorda una serie rigida, un tassello di un insieme, come accade nei tascabili. Questi abiti sono un lessico che precede le copertine vere e proprie nella mente dei lettori: uno entra in libreria e al volo riconosce (e distingue) un thriller, un saggio di politica, una storia dell’arte illustrata. Senza luoghi comuni non c’è comunicazione. Il punto è come maneggiare questi stereotipi senza renderli inerti o farsene sopraffare.
Ragionando su problemi di questo tipo, da qualche anno a questa parte, mi sono imbattuto in un nodo che riguarda la saggistica “alta”, cioè non quella divulgativa ma quella filosofica, teorica, più densa, che affronta questioni spesso inillustrabili. Cosa mettere in copertina su un libro che parla di libero arbitrio o di sostenibilità economica senza cadere nella didascalia o nella battuta giornalistica? E un saggio non è un articolo di giornale, ha un passo disteso che non può risolversi in uno slogan visivo.
Ogni volta che capitano titoli di questo genere una strada possibile è fare copertine di solo lettering: usare la tipografia per costruire un piccolo manifesto che attraverso il tono visivo racconti quello culturale. I caratteri e le loro caratteristiche di impaginazione diventano l’analogo della voce dell’autore. Questo però va bene se si tratta di titoli unici, in cui si può di volta in volta cambiare font, colore, pesi, corpi, spaziature e via dicendo. Se invece si sta progettando una collana la ripetitività dello schema non consente di aderire al timbro specifico di ogni singolo autore; e l’effetto è quello di apparire come “saggistica accademica”, che è tutt’altra categoria merceologica.
Il problema riguarda infatti solo la saggistica trade, che sarebbe a dire quella che troviamo in libreria: la differenza è sostanziale. Mentre l’accademia comunica tramite la ripetitività grafica una necessaria compattezza culturale, il libro trade deve sgomitare un po’ per far sapere che esiste, visto che non può contare sulle adozioni universitarie per sopravvivere. Ovviamente esistono molte realtà intermedie: titoli trade che vengono adottati nella scuola o testi accademici che godono successi commerciali che travalicano le aspettative della loro nicchia. Ma questi casi non sono la norma né fanno regola.
Per ovviare all’effetto “accademia” l’unica strada per il “saggio trade” è quella di usare immagini precise, evocative, che attirino lo guardo del lettore: il risultato è una saggistica seriale, elegante, autorevole. Tutto ciò è molto facile se abbiamo a che fare la storia dell’arte e i risultati sono quasi sempre raffinati. È la strada adottata da Einaudi, da Electa o da Bollati Boringhieri. C’è però da dire che fare cose belle e sensate nel settore “arte” è incredibilmente facile: si può attingere a un patrimonio sconfinato che ha sempre a che vedere col contenuto del libro. La difficoltà insorge quando si maneggia la filosofia, l’antropologia o la politica, che affrontano spesso temi, appunto, inillustrabili.
Come disegnare una collana di testi filosofici senza cadere nella ripetitività? Il groppo concettuale è che ogni volta che si illustra un titolo di filosofia si finisce per chiuderlo dentro una gabbia interpretativa, restituendo un’immagine didascalica di un concetto quasi sempre più sfumato e sfuggente. Ma prendere un libro “alto” e renderlo più visibile in libreria significa anche ribadirne la natura contemporanea e quindi necessaria. Ho provato così, all’inizio con timidi tentativi, a proporre copertine che fossero allo stesso tempo fotografiche o pittoriche ma tuttavia “astratte”.
Uso il termine secondo l’accezione che ha assunto all’interno della storia dell’arte: astratto è qualcosa che si oppone a qualcos’altro che è invece figurativo, ossia in cui si rintracciano somiglianze col visibile naturale. In realtà anche la pittura astratta o quella informale non rispettano mai davvero questa condizione: in un quadro di Kandinskij posso vedere alberelli, lune e barchette; oppure posso riconoscere un muro scrostato in una tela di Mark Rothko; e posso persino vedere delle sbarre in un Mondrian. E questo accade perchè la spinta psicologica a cercare somiglianze e a dare senso alle macchie, anche alle più indefinite, è in noi fortissima. Accontentiamoci allora di dire che un’immagine è astratta perché è meno figurativa di un’immagine in cui il rapporto con la realtà è convenzionalmente più diretto o identificabile.
Nel caso delle copertine l’astrazione riguarderà allora, almeno nel nostro caso, il rapporto con la fotografia e con l’illustrazione, che di norma raffigurano sempre qualcosa. Il nostro occhio si è ormai abituato alla natura fotografica delle immagini contemporanee (anche nei render realizzati al computer) e tendiamo a trattare come “foto” anche quelle che sono al limite della figurazione. In sostanza, oggi, per il nostro sguardo, la fotograficità di un’immagine risiede nell’esibire alcune qualità materiali, sensibili, visibili, tipiche di quelle immagini create da una strumentazione fotografica. Per l’occhio comune una foto sfocata è una foto sbagliata e non un’immagine astratta. Eppure l’errore fotografico suggerisce la presenza di una realtà oltre l’immagine, anche se questa realtà resta indecifrabile. Anche gli scatti sfocati, sbagliati, spostati o fuori quadro, ci appaiono in fondo come “foto”, anche se non raffigurano niente di riconoscibile. Mi sono chiesto se non fosse pensabile un’intera collana di libri basata su scatti sbagliati, almeno secondo la grammatica tradizionale: usare fotografie in cui comparissero brandelli di mondo, spicchi, filamenti, graffiature, dettagli, presenze evanescenti che aprissero sul mondo suggerendolo ma senza mostrarlo in modo didascalico.
Ne è venuto fuori un progetto che ho proposto ad Eleuthera, editore che ha in catalogo tanti di quei libri filosofici non illustrabili in modo diretto. Di fronte a titoli come La democrazia radicale del Rojava o L’ecologia della libertà qualsiasi immagine sarebbe risultata troppo descrittiva, sarebbe parsa una didascalia, un commento, di un aspetto soltanto che ne avrebbe mortificato altri. Alla fine ha preso forma una collana “non figurativa”, forse un unicum per l’editoria trade. Tutte le copertine, infatti, esibendo qualità fotografiche rimandano all’esistenza di una realtà di fronte all’obiettivo, ma anziché chiarire o descrivere ci pongono di fronte un aspetto sfuggente del mondo guardato. Che è poi, credo, anche una condizione inevitabile del nostro sguardo attuale. Nel progetto è però previsto che si possano usare anche figure o foto più “decifrabili” ma l’idea di fondo è mostrare senza dire apertamene: tematizzare lo sguardo distratto, farne una storia.
Se avessi usato la solo struttura grafica, il layout, senza foto, ma cambiando solo i colori, sarebbe stato un progetto strettamente grafico: da saggistica tradizionale. La foto “informale” trasforma invece la copertina in un fotogramma pescato da un flusso, un’istantanea accidentale e casuale. Copertine come frammenti di televisione insomma, come scatti involontari generati da uno smartphone.
C’è però un’ultima questione che mi preme sottolineare: questo progetto è nato senza un editore. L’ho pensato partendo da riflessioni più generali riguardo a problemi filosofici, figurativi e commerciali; e l’editore è venuto poi. Certo ci voleva il coraggio di Eleuthera, ma i rapporti tra design e committenza sono fruttuosi quando il rapporto tra i due è un dialogo e non una mera trattativa di domanda e di offerta. Alle volte il design è anche un modo di pensare il mondo e non la mera risoluzione di una questione pratica.