Lo sceneggiatore fa un lavoro culturale, ma lo fa anche il tecnico delle luci? E l’agenzia che vende i biglietti? Dov’è il confine, e ha senso parlare di un confine? Il concetto di cultura non è ben definito, e forse è bene che sia così. Ci sono dei concetti «ombrello» sotto i quali ricadono molte nozioni tra loro imparentate, e questo relativo lassismo permette da un lato di andare a esplorare le frange del concetto, alla ricerca di nuove possibilità di comprensione della realtà che ci circonda, e dall’altro di mantenere una traccia di quanto altri prima di noi o lontano da noi hanno scoperto nelle loro esplorazioni. Questa elasticità fruttuosa non è una prerogativa delle scienze umane.
Il termine pianeta ha cambiato significato molte volte, ma il fatto che il termine stesso non sia cambiato ci permette di dare un senso, forse una seconda vita, al lavoro di astronomi, navigatori e poeti del passato o di culture lontane, e di preparare il terreno per comprendere dati che ancora non sono stati raccolti.
Ci sono tante accezioni del termine cultura, su alcune delle quali non ci soffermeremo («appartieni a una cultura dell’omertà»). Qui parleremo soprattutto di un senso relativamente ristretto e di un senso più lato. Quando si parla di «cultura» in un senso relativamente ristretto, conforme all’uso mediatico e nobilitato da etichette come «Ministero della Cultura» (la Francia ne ha uno; l’Italia preferisce «Ministero dei Beni Culturali»), vengono in mente cose come: persone che leggono libri, un museo, l’opera, biblioteche, le musicali. La cultura non è qui troppo strettamente imparentata con l’educazione formale e irta debolmente con lo svago, sotto forma di arricchimento personale senza fini utilitari, i quali verrebbero considerati come troppo remoti rispetto allo svago. Un elemento di disinteresse permea la nozione.
Il senso ristretto va messo a confronto, se non a contrasto, con il senso che interessa agli antropologi, molto più lato: la cultura come strumento interpretativo – ovvero, insieme di rappresentazioni – che permette di affrontare varie situazioni della vita, e che – potremmo aggiungere – non fa parte dell’eredità biologica; anche se fa poi parte della nostra eredità biologica di essere animali che hanno bisogno di cultura per affrontare la vita, perché non ce la farebbero a mani nude. Qui svago e disinteresse diventano componenti minori, mentre la cultura è una cassetta degli attrezzi e i fini utilitari sono dichiarati fin dal principio. Cultura è come si cuoce il cibo, è creare nuovi utensili e processi per lavorare la materia, è comunicare e migliorare il modo di comunicare. Scrittura, musica, procedure antinfortunistiche, tutto rientra nella cassetta degli attrezzi culturale. La parentela con l’educazione è molto più forte che nel senso ristretto.
L’educazione è l’investimento che famiglie e società fanno per modificare in modo durevole l’architettura cerebrale delle nuove generazioni, per portarle a un livello di volta in volta rinegoziato di competenza considerato adeguato: saper potare piante da frutto, intonare un râga, scrivere in corsivo, distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi, salvare un file in una cartella. L’educazione lotta contro la biologia, ma può farlo soltanto usando i mezzi che la biologia le mette a disposizione: occhi e orecchie, desideri e opinioni, ragionamenti ed errori di ragionamento; non a caso è un processo lunghissimo e assai dispendioso.
Non c’è un senso migliore di un altro, e uno dovrebbe semplicemente scegliere per sapere di che cosa sta parlando. Resta il fatto che l’opzione ristretta e l’opzione lata si sovrappongono, e muovere dall’una all’altra ci permette per l’appunto di dare un significato a pratiche anche molto diverse, di legarle con un unico filo. Ci sono comunque – e su questo si impernia il mio argomento – componenti normative in ciascuna delle due accezioni. Non c’è cultura senza norma. Per chiarirci, una componente normativa è una richiesta di conformità a uno standard, a un criterio. Questo fa sì che alcune cose siano buone rispetto a quel criterio, altre meno o niente affatto.
La frase «Il padrone sono me» è comprensibile, nessuno avrebbe dei dubbi sulla sua interpretazione, ma è sbagliata, e passiamo molto tempo a correggere i nostri figli quando fanno errori di questo tipo. Quando parlo di normatività, di giusto e di sbagliato, non intendo dire molto più che questo. In una situazione di relativismo rampante parlare di normatività, di correttezza, può fare un effetto incongruo. Ma non ci sono molte alternative. Privarsi del concetto di normatività significa privarsi della possibilità di comprendere perché ci rendiamo conto del fatto che un testo ha degli errori ortografici o grammaticali.
Se non trovate arbitraria la decisione del vostro correttore di bozze di mettere l’accento sulla o di però, vuol dire che di fatto accettate una norma (e che volete proteggere il vostro lettore dal rischio di interpretare male quello che dite, dal farsi l’idea che stiate parlando di un pero).
Chi produce prodotti culturali è immerso nella normatività, e a volte le norme sono in conflitto. Nessun artista accetterebbe (o accetterebbe facilmente) la critica «questo colore non era necessario, qui», «avresti potuto tranquillamente mettere del giallo», o «la maggior parte dei tuoi colleghi avrebbe messo del giallo». Un designer non si limita a creare un oggetto fatto in un certo modo per risolvere un problema: è insito nel suo operare che l’oggetto che sta creando sia da considerarsi come la soluzione migliore a un certo problema. Ci sono barzellette buone e barzellette meno buone, manicaretti eccellenti e piatti senza qualità. È insito in tutte le nostre pratiche che certe cose siano scartate perché meno riuscite di altre, che certi procedimenti siano promossi perché giudicati migliori. Questo è vero anche nel caso in cui le circostanze fanno sì che non siano poi le cose migliori a emergere e venir tramandate. Ci affidiamo al test del tempo per permettere al valore invisibile di emergere.
La normatività non va confusa con la prescrittività. Il fatto che un certo prodotto culturale sia conforme a degli standard non implica che debba generare risposte standardizzate in chi ne fruisce. Prendete un romanzo e un videogioco. Entrambi sono prodotti culturali, e possiamo valutare entrambi con vari metri, tra cui quello della buona fattura, decidere se sono stati cesellati con cura o se sono stati fatti «con i piedi». Ma a parità di cura nella realizzazione, il romanzo resta infinitamente meno prescrittivo del videogioco. Il videogioco propone rendering visivi dettagliatissimi di ogni scena, lasciando pochissimo spazio alle creazioni fantastiche generate spontaneamente nella mente di chi lo utilizza. Il romanzo è invece apertura, richiede la costante collaborazione del lettore per creare immagini che restano solo mentali e che differiscono sicuramente, in modo anche radicale, da un lettore all’altro. Sia i romanzi sia i videogiochi si conformano a norme che ci permettono di valutarli, ma differiscono nelle prescrizioni che generano in modo automatico.
Questo per dire che parlare di cultura è parlare di valori. Non riconoscerlo significa privarsi – come ho sostenuto poco sopra – di una dimensione descrittiva delle pratiche umane. Ci obbligherebbe a non vedere la differenza tra la nostra comunità e quella – che immaginiamo con fatica – in cui fare le cose bene e farle male non faccia alcuna differenza, in cui si applaudano con lo stesso trasporto musicisti stonati e virtuosi, si leggano con eguale piacere testi sciatti, copia-incollati, e pagine eleganti, ben cesellate. Ma l’aspetto descrittivo non è che una parte di questa riflessione.
Riflettere sugli elementi normativi in ambito culturale ci permette di fare un discorso più generale sul ruolo della cultura nella società o meglio in un certo modo di vedere le cose nella nostra società. Quello che voglio sostenere è che i valori, e in particolare il valore della qualità, nella creazione di prodotti culturali, meritano di essere coltivati in maniera più sostenuta e non soltanto dati per scontati, e ancor meno accantonati.
Dal momento che le definizioni non ci aiutano – stiamo lavorando con concetti fluidi – il metodo che sto usando consiste nella sottolineatura di affinità tra diverse aree del fare umano. Abbiamo parlato del confine poroso tra la cultura in senso stretto e lo svago o l’educazione. Giunti a questo punto una ulteriore nozione finitima che ci può aiutare è quella del lavoro artigianale, descritto magistralmente da Richard Sennett nell’Uomo artigiano. Come nei casi precedenti, il lavoro artigianale è una parte della cultura in senso ampio, antropologicamente definito, come per l’appunto lo sono lo svago e l’educazione. E il lavoro artigianale ha parentele con questi: si può essere artigiani nelle ore di svago, e l’apprendistato formale è una componente importantissima dell’artigianato. Ma sono i valori dell’artigianato che attirano la nostra attenzione.
Per evitare possibili equivoci, non è artigiano soltanto chi cesella un bracciale o intaglia il pannello frontale di una madia, non stiamo qui stilando un capitolo nostalgico che mitizza il rapporto con il materiale. È artigiano, come ricorda Sennett, anche chi crea pagine web (originali) o scrive software (originali). È artigiano il musicista. Si tratta, in questi casi, di lavori artigianali perché solo in parte meccanizzabili: anche se assistita da strumenti sofisticati, addirittura di necessità da ulteriore software, l’attività del programmatore richiede un lavoro di pianificazione, di cesello e una considerazione particolare per l’originalità. Lavoro artigianale nel senso più pieno del termine.
L’artigianato è un’attività nella norma mediata da utensili, da strumenti. Una parte importante dell’apprendistato artigianale consiste allora nell’impratichirsi di uno strumento, per averne a disposizione tutte le potenzialità, metterle a frutto nell’esecuzione del proprio lavoro. Il caso limite di questo rapporto con lo strumento è quello dei musicisti, che usano lo strumento per modificare lo spazio sonoro, un’entità astratta. Casi ancora più limite sono quelli del ginnasta e del cantante, che trattano il proprio corpo come uno strumento, sfidando la nozione di mediazione. L’apprendimento strumentale è un apprendimento sensomotorio, la perfezione viene raggiunta con la pratica e al tempo stesso, come dice Sennett, crea il desiderio di praticare ciò che ci viene bene, in un ciclo di retroazione positiva sul quale i sistemi educativi non riflettono forse abbastanza. La pratica rende perfetti, ma la perfezione che raggiungi o che intravedi ti invita a eseguire, a praticare, crea un piacere del gesto.
Perché questi elementi di valore sono importanti? Essenzialmente per due ragioni, che hanno a che fare rispettivamente con il rischio di atrofizzazione della diversità culturale e con il progetto di valorizzare le attività culturali.
La cultura in senso lato ha una componente adattativa, quindi necessariamente situata. La cassetta degli attrezzi culturale sviluppata da generazioni di pescatori dello Sri Lanka non è portatile, non verrà facilmente riutilizzata dai cacciatori raccoglitori amazzonici o da un tecnico del suono berlinese. Al tempo stesso un forte elemento cumulativo fa da contraltare all’ancoraggio in situazione; gli scambi e la tradizione portano da un luogo all’altro, da un tempo all’altro, tecniche e idee; un certo modo di fare un nodo migra dal mondo marinaro a quello del pastore e dell’alpinista; l’orientamento che usa le stelle passa di mano dal navigatore al viandante all’aviatore.
La dialettica tra la situazione e la propagazione è in un certo senso semplice: una forte pressione della situazione permette lo sviluppo di tecniche e soluzioni perfettamente adatte in loco ma molto diverse in diverse situazioni. E una forte esigenza di semplificazione spinge al riciclaggio opportunistico di tutto quanto può essere trasmesso da una situazione a un’altra, lontana nel tempo o nello spazio. La biodiversità culturale – se mi si concede il termine – è una delle risorse più forti che la specie umana possegga. Non sappiamo oggi che cosa servirà domani, non abbiamo nessuna idea di come sarà il mondo tra un secolo o tra un millennio, e dovremmo far tesoro della biodiversità, della miriade di anticorpi latenti che ci proteggeranno da complessità ancora sconosciute.
Ma chi genera oggi cultura (sempre nel senso lato)? La situazione locale tende a cedere il passo alla competizione globale, che impone norme sue, standardizzate, si appoggia su metriche insensibili al contesto, inietta uniformità e ne vive perché solo questa permette di fare paragoni tra situazioni che un secolo fa sarebbero state incommensurabili. Dimenticandoci che si tratta di euristiche grossolane, misuriamo e paragoniamo i prodotti interni lordi e i risultati scolastici di paesi tra loro lontani, in ogni senso lontani. Invitiamo gli uni a crescere, gli altri a riformare, altri ancora a modernizzarsi. Molto ci sarebbe da dire sugli aspetti politici di questa dinamica, e in particolare sui costi per gli individui, ma qui ci interessa parlare del rischio della standardizzazione per la biodiversità culturale.
La «nuova normatività» fa perno su un insieme di valori astratti – misurabilità numerica, paragonabilità numerica – per loro natura del tutto insensibili alle differenze di contesto. Questo ha poco a che vedere con l’esercizio della nostra capacità di giudicare la conformità di una pratica a una norma – mia figlia ha eseguito bene i colpi d’arco in questa Bourrée? C’è spazio per una punta di amaro in questa torta al cioccolato? La forma di questa sedia mi sfida, ma «funziona»? Nella versione digitale e neotaylorista della cultura globale, in cui nozioni meravigliosamente seducenti come quella di «saggezza delle folle» si fanno strada persino nelle conversazioni da ristorante, e in cui una parte cospicua dell’umanità viene messa a continuo contributo dai Lord Digitali che non chiedono nulla di meglio che sfruttare il lavoro gratuito di un esercito di volontari inconsapevoli, il giudizio argomentato, la sensibilità che nasce dalla discussione sui valori fanno posto all’attribuzione di un certo numero di stelle o al clic sull’icona acattivante del «mi piace».
In tutto questo a far le spese è la diversità culturale. È come se la cassetta degli attrezzi si fosse svuotata e non fosse rimasto che il martello. Con questo puoi conficcare chiodi, e va bene, ma è come se dovessi anche usarlo per inserire le viti, tagliare i tessuti e far suonare le corde di un violoncello. Ci puoi certo riuscire, ma il risultato, prevedibilmente, sarà men che ottimale, e lungi dalla perfezione cui mira il lavoro dell’artigiano.
Nel nuovo universo digitale ogni tua azione deve limitarsi al far scorrere un dito su uno schermo tattile (ed è semplicemente grottesco che dozzine di giornalisti e intellettuali pensino o quantomeno scrivano che le interfacce tattili hanno prodotto un «recupero delle competenze sensomotorie»). Nel nuovo universo digitale ogni tua azione passa nel filtro o frullino elettronico; ed è come se ogni nostro gesto strumentale dovesse farsi con un martello.
Se il taylorismo ci trasforma in appendici di macchine, e le nostre attività diventano parcelle di attività, questo crea una delega sempre più importante alla macchina, in particolare una delega della valutazione. I sistemi di raccomandazione come quello usato da Amazon prendono il posto della lettura e del passaparola; la misura statistica di «quello che piace alle persone che hanno scelto come te questo prodotto» predice e di fatto modella il nostro gusto. […]
Tiriamo le fila. Rivendicare i valori artigianali della cultura significa, in fondo, opporsi alla delega, combattere la cultura dell’impazienza. L’impazienza è anche inimicata dallo svago, il suo tempo non è certo quello che ci serve per svagarci. (Il legame della cultura con lo svago non è peregrino – lo svago è un valore, un’area protetta della nostra quotidianità, in cui siamo padroni del nostro tempo e non rispondiamo ad agende altrui.) Infine, delega e impazienza non hanno posto nell’educazione: non c’è app che possa imparare per te.
La consuetudine costante, quotidiana con i prodotti culturali ci aiuta a migliorare e affinare la nostra capacità di valutazione, ci premunisce contro la delega della valutazione e l’apparente comfort dei sistemi di raccomandazione e degli indici di reputazione. Ci obbliga a metterci in gioco, in prima persona.
Quando si discute di valorizzazione della cultura, si deve pensare al fatto che la cultura è una delle poche cose cui riconosciamo un valore intrinseco. (Sarebbe istruttivo un paragone con la sessualità, che è stata liberata dal tautologico valore estrinseco della riproduzione, per vedersi riconosciuta una dignità che solo le può provenire dal fatto di essere dotata di un valore intrinseco.) Il valore della cultura, quasi paradossalmente, sta nel fatto di avere un valore. Parlare di valorizzazione della cultura è quindi, in un certo senso, mettere il carro davanti ai buoi.
Se la cultura genera valore è perché ha un valore intrinseco. Se comprendiamo in che senso la cultura (nell’accezione stretta) incorpora valori, che non si può fare cultura, e nemmeno goderne, se non si accetta di giocare il gioco del valore, ci è subito chiaro quali saranno le priorità nelle nostre scelte, in particolare quando la cultura deve reggere il confronto con altre pratiche, lottare con esse per trovare uno spazio nella nostra vita, giorno dopo giorno.