Cosa resta della Biennale di Venezia 2022?

La 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia ha chiuso i battenti il 27 novembre, con un record di affluenza di pubblico. Finito il momento dell’esperienza, della scoperta e della visita, degli incontri, ora possiamo chiederci cosa resta.

Non è una domanda semplice. Eppure, è fondamentale. Nel nostro modo di pensare all’arte, il momento dell’incontro con l’opera non è solo considerato centrale, ma spesso esclusivo. Nel senso che non si valuta il dopo, quello che resta appunto, nella durata, al di là dell’incontro che ha luogo nell’esposizione.

Un’opera d’arte è sempre una metafora. O, più precisamente, l’opera dell’arte è sempre quella di sollevare un frammento di realtà nel prisma della metafora. Contemplare un’opera d’arte significa dare tempo all’arte perché essa possa operare questa forma di trasfigurazione. Contemplare un’opera d’arte significa quindi esporsi all’azione dell’arte. Contrariamente a quanto pensiamo, non è l’opera ad essere esposta, ma noi. Infatti, in presenza dell’opera, ci esponiamo, come una superficie è esposta ai raggi di luce, ma anche come ci si espone a un pericolo, correndo un rischio, affrontando un’alterità inquietante. E, contrariamente a quanto pensiamo, questa esposizione non si esaurisce nello spazio protetto, riservato all’incontro con l’opera – e che chiamiamo esposizione – ma persiste al di là di esso, si estende nel tempo, dando impulso a una trasformazione che si consuma invece nella trama del quotidiano, nella vita di tutti i giorni. Anzi, potremmo affermare che è solo quando l’effetto dell’arte va oltre lo spazio dell’arte che essa si manifesta veramente, che l’oggetto che abbiamo contemplato diventa una vera opera d’arte. Se questa infiltrazione non avviene, se la traccia non scava il suo solco nella durata, in una persistenza in cui la metafora non smette di interferire con la realtà, l’incontro non ha avuto luogo. Il nostro tempo di esposizione non è stato sufficiente perché l’arte potesse operare.

Delcy Morelos, Earthly Paradise, 2022 Site-specific installation Courtesy: La Biennale di Venezia

 

Partendo da questa riflessione, mi chiedo cosa mi resta di questa Biennale.

L’ho visitata, prendendo il tempo necessario, al momento dell’inaugurazione, e ho cercato di lasciare che i sedimenti si depositassero e il primo effetto, quasi abbagliante, stemperasse in un pensiero più nitido e più composto. Ma un certo turbamento persiste. Il che non può che essere un buon segno.

Cercherò allora, in questa breve cronaca, di mettere a fuoco questo turbamento.

Non parlerò dei padiglioni nazionali che mi hanno colpito – da quello, sottile fino alla soglia dell’immateriale, dell’Armenia a quello del Belgio, rutilante di una letizia che sembrava in via d’estinzione, a quello svizzero di Latifa Echakhck, che ho avuto la fortuna (e la gioia) di poter seguire da vicino nel suo sviluppo. Concentrerò invece la mia attenzione sull’esposizione principale, curata da Cecilia Alemani.

Ancor prima di visitare i due spazi nei cui si articola l’esposizione, ai Giardini e all’Arsenale, il titolo mi aveva affascinato: Il latte dei sogni, preso da una novella di Leonora Carrington. Leggendolo, mi sono detto: ecco un’ottima definizione dell’arte – che esprime allo stesso tempo una dimensione materiale, sensibile o addirittura sensuale, e un’apertura verso gli spazi dell’immaginazione e dell’utopia. Che indica nutrimento, tepore e osmosi e, allo stesso tempo, desiderio, alterità ed estasi.

Eppure, nonostante questa premessa, varcate le soglie dell’esposizione, ho avuto quasi un momento di rifiuto. A una prima occhiata, molta pittura, soprattutto figurativa, molti oggetti, anche decorativi, poche installazioni, niente tecnologia, un caos di colori e di forme, di disegni e di motivi, che si opponeva al minimalismo del concettuale, al dispiegamento scientifico di archivi e documenti, a cui ci eravamo abituati (o forse no). Io che da anni rifletto sulla “svolta concettuale” dell’arte, sui paradigmi partecipativi e sui dispositivi mediatici, ho avuto un momento di smarrimento, come se varcassi la frontiera di una zona nemica. Poi sono entrato, e ho iniziato a espormi alle opere e ai discorsi.

Ora, a distanza di diversi mesi, non posso che essere riconoscente. Dopo una sfilza di edizioni insipide, di cui non conservo alcun ricordo, questa Biennale non solo mi ha fatto scoprire artisti – e soprattutto artiste – che conoscevo poco, male o per nulla, ma mi ha fatto anche capire perché non le conoscevo. Non per un’ignoranza innocente, e nemmeno per un’omissione colpevole. Ma come risultato di una specifica storia dell’arte – alla quale io stesso stavo contribuendo, come storico dell’arte. Già nell’articolo indeterminativo si nasconde il primo errore: perché non ci può, anzi non ci deve essere una storia, una sola storia – unica, unitaria e universale.

Da anni mi batto perché la storia dell’arte si trasformi in storia delle arti – in quanto mi sembra assolutamente inconcepibile studiare separatamente le discipline, dati i continui scambi e tensioni che le attraversano, date le dinamiche inter-, trans- o contro-disciplinari che ne spostano continuamente i confini –. Ma in questi ultimi anni appare sempre più evidente che la storia non può essere scritta se non in una prospettiva plurale. Nelle mie ricerche, anche storiche, ho sempre cercato di dare spazio a una polifonia, spesso dissonante, di voci. Ma non abbastanza. Il fatto è che la storia in sé, come concetto lineare, va ripensata, non solo per liberarla da prospettive egemoniche ormai sedimentate da secoli. Ma anche perché l’arte, nel suo operare, la contraddice.

Riveniamo alla Biennale. Nella sua selezione, la curatrice Cecilia Alemani ha messo in luce una serie di artiste – con qualche eccezione maschile – come “figure della trasformazione, compagne di viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”. 

E, in effetti, la dimensione della metamorfosi è l’elemento principale che persiste nella mia memoria: al di là delle singole opere, un’impressione caleidoscopica di forme in continuo mutamento, d’innesti e d’ibridazioni, di tessiture e di trame, di ricami e di arazzi, ma anche di corpi e di materia. Al di là della profusione di immagini e figure, mi resta l’odore dei blocchi di terra umida, profumata di cannella, di Delcy Morelos (Earthly Paradise), o del giardino di Precious Okoyomon (To see the earth before the end of the world) in cui, tra le piante e le pietre emergono creature di terra – epilogo tellurico e fatato del percorso. Echi delle Metamorfosi di Ovidio – e di quelle, più recenti e altrettanto sconvolgenti, di Emanuele Coccia (Metamorfosi, Einaudi, 2022): “tutti i viventi sono, in un certo modo, uno stesso corpo, una stessa vita e uno stesso io che continua a passare di forma in forma, da soggetto a soggetto, da esistenza a esistenza…”

Capsula 1 – La Culla della Strega / The Witch’s Cradl Courtesy La Biennale di Venezia

 

Nel suo testo introduttivo, Cecilia Alemani cita, con grande puntualità, le riflessioni sul Post-umano di Rosi Braidotti e la teoria del “re-incantesimo del mondo” di Silvia Federici: l’attualità di una filosofia che ripensa la storia, invitando a un approccio plurale, a una decostruzione radicale, e soprattutto all’abbandono dell’antropocentrismo. Ma l’arte parla un’altra lingua: la forza delle immagini non devono convincere, ma infiltrare. L’arte non trasmette, ma trasforma.
L’arte parla precisamente la lingua della metamorfosi.

La necessità di ripensare la storia dell’arte emerge in modo frontale nelle cinque piccole “capsule temporali”, distribuite lungo il percorso espositivo al Padiglione Centrale e alle Corderie e splendidamente messe in valore dalla scenografia dei Formafantasma. Pensate come delle piccole mostre nella mostra, esse costituiscono degli spazi di approfondimento storico, e, come spiega la curatrice, di “introspezione”. È all’interno di queste nicchie temporali, che ho incontrato le sorprese più potenti. Le opere presentate permettono non solo di mettere in rilievo le presenze femminili nelle avanguardie storiche, ma di mostrare la loro resistenza a tali movimenti. Per esempio, le opere di Eileen Agar, Leonora Carrington, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Lois Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning, Claude Cahun e Remedios Varo trasformano il Surrealismo, o quelle Agnes Denes, Lillian Schwartz, Ulla Wiggen, Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco sconvolgono le premesse dell’arte cinetica e programmata degli anni Sessanta.
Sarebbe troppo lungo entrare nei dettagli di una ricostruzione storica rigorosa. Ma mi sembra evidente che queste opere non contribuisco ad allargare le frontiere di movimenti di avanguardia, che hanno marcato la storia dell’arte, includendo delle presenze femminili trascurate o considerate ingiustamente marginali. Al contrario, tali presenze congiurano a disfare tali frontiere, rivelando porosità, persistenze, risonanze. La storia dell’arte ci ha abituati a una linearità basata sull’idea del nuovo, della tabula rasa, di un susseguirsi di movimenti – di avanguardie (termine esplicitamente militare) costruite se non sulla rivoluzione almeno sulla riforma di una tradizione. La storia dell’arte ci racconta di un’arte che parla quasi solo di arte. Con quello che è stato definito il paradigma concettuale, o post-concettuale, questa dimensione si è accentuata, immortalata dal principio tautologico di Joseph Kosuth, “l’arte è la definizione dell’arte”. Certo, non voglio contraddire questo principio, che ha modificato in modo radicale la nostra percezione dell’arte contemporanea, producendo uno scollamento della dimensione artistica dalle sue matrici estetiche e etiche.

Ma, di fatto, le opere delle capsule temporali raccontano un’altra storia, anzi altre storie – mostrando come l’arte è profondamente incastrata nelle esistenze, parla non tanto di tendenze astratte e di ideologie, ma di eventi, di corpi, di desideri, di materie: di latte e di sogni. La dimensione biografica rivendicata da queste opere mi sembra giocare fuori dalla Storia dell’Arte, con le maiuscole, ricordandoci che essa è una narrazione come le altre, anzi più inquietante perché, nella sua astrazione, rivendica una prospettiva universalista e normativa.

Capsula 1 Padiglione Centrale Courtesy La Biennale di Venezia

 

Cecilia Alemani è chiara, nella sua presentazione, quando spiega che le capsule temporali rispondono a un “approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato: una storiografia che procede non per filiazioni e conflitti ma per rapporti simbiotici, simpatie e sorellanze.”

Per una strana coincidenza, quando sono arrivato a Venezia per visitare la Biennale, stavo leggendo The Carrier Bag Theory Of Fiction di Ursula Le Guin (Ignota, 2019). In questo breve testo, scritto nel 1988, luminoso come una stella polare, la celebre scrittrice di fantascienza spinge a ripensare le basi della narrativa, e più largamente della storia, non più a partire dal principio (maschile) del conflitto e della conquista, ma quello (femminile) dell’accoglienza e della cura delle cose, del corpo, del mondo. Alle fondamenta della civiltà, Le Guin non pone più il bastone o le armi per colpire e uccidere le prede, ma un contenitore per raccogliere le cose di cui si ha bisogno per vivere, “cose utili, mangiabili e belle”. Citato da Donna Haraway o Anna Tsing, questo testo è anche ripreso da Cecilia Alemani, per illustrare che “le storie e le tecnologie non sono né prometeiche né apocalittiche, ma piuttosto dei recipienti che aprono spazi di espressione della vita”.
Mi rendo conto ora, a distanza di mesi, che la mia visita dell’esposizione è stata fortemente influenzata da questa lettura, su cui ancora oggi continuo a riflettere – e che ha posto sul fondo una posta in gioco importante: la necessità di ripensare la storia dell’arte, partendo da nuove basi, non più come una linea dritta composta di forme e evoluzioni o di riforme e rivoluzioni, ma come una trama complessa, plurale, ordita da esistenze, resistenze e divergenze  Ecco allora che molti oggetti, molte opere, come i vasi antropomorfici di Magdalene Odundo, ai quali, precedentemente avrei dedicato uno sguardo distratto, come manufatti puramente decorativi, attraggono la mia attenzione e restano impressi nel ricordo: segni premonitori di un destino metamorfico, in cui noi – come vasi – accogliamo le tracce del mondo. Come dice Le Guin, nell’ultima, splendida frase del suo pamphlet, “ci sono ancora dei semi da raccogliere e c’è spazio nella borsa delle stelle”. La storia dell’arte non è dietro di noi, ma davanti a noi.

 

Immagine di copertina: Precious Okoyomon Courtesy La Biennale di Venezia