Contemporaneo occidentale
Da quando hanno messo piede nel mondo, gli esseri umani, secolo dopo secolo, si sono certamente convinti di possedere un io. Hanno molto spesso creduto di essere una cosa sola, appunto: con il proprio ego. Sono spesso stati convinti che fosse impossibile separare questo ego dalla loro mente e dalla loro vita. Il loro io è spesso stato, per loro, una vera e propria entità fisica. Non era così. Naturalmente era possibile vedere i sintomi dell’attività dell’io: quando uno di loro si arrabbiava, il suo volto rifletteva questa vibrazione collerica. Potevano diventare rossi di rabbia. Quella però non era la rabbia: era un sintomo della rabbia. Questo io, allora, non è mai stato costituito da manifestazioni esteriori: era piuttosto un fattore mentale.
La specie umana, come si sa, ha condiviso il pianeta con infinite altre specie. Pensiamo ai serpenti. La sostanza di cui è fatto lo strato superficiale della loro pelle non è elastica e, a differenza di quella degli esseri umani, non è capace di rigenerarsi. Quando i serpenti crescono, quella pelle diventa come un vestito stretto. Una gabbia. Il corpo dei serpenti, allora, trova un modo per salvarsi. Sotto la loro pelle, che invecchia giorno dopo giorno, sorge uno strato di pelle nuova. Al momento giusto, i serpenti rompono il rivestimento esterno, ad altezza della testa, e cominciano a spingerlo indietro, sfregando contro il terreno. L’involucro sottile si rovescia e viene così rigettato praticamente intero. È come un guanto che, squama per squama, riproduce il corpo dell’animale.
Gli esseri umani, invece, non cambiano mai pelle. Così, la scambiano per infinito. Se si può obiettare dunque che questa specie ha sempre messo l’ego al centro, tanto da considerare la propria pelle potenzialmente eterna, continuamente dimentica dello stato impermanente delle cose, è innegabile che l’epoca che si apre nel xxi secolo e che accoglie questo libro come già un oggetto esotico, quasi ontologicamente lontano dal tempo in cui viene prodotto, è l’epoca in cui la specie ha avuto, finora, gli strumenti più utili e più efficaci per cavalcare questo ego, accarezzarlo, solleticarlo, farlo esplodere nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione.
Questa lunga premessa, che sembrerebbe sociologica e che invece vuole porsi come metafisica, per provare a rispondere a questa domanda: che cos’è la letteratura in un tempo algoritmico?
Se la domanda è aperta, la risposta è apertissima, anzi: non esiste. È un discorso potenzialmente infinito, che va fatto fluire. Il fiume scorre e chi si pone domande scorre con lui, come un piccolo tronco di legno caduto dall’albero, spazzato via dal vento, e che fluisce dolce. […]
Iniziamo dalla realtà. La parola è: realtà.[…]
Da qualche lustro, per ragioni su cui non ci soffermiamo, questa parola è stata spesso scambiata con un’altra, che ci assomiglia, ma che è molto distante: realismo. È il tempo del realismo – che mette al centro la rappresentazione della vita quotidiana, di un preciso contesto storico o familiare o ambientale, con particolari risvolti sociali, politici o psicologici –, è il tempo, persino, della verosimiglianza, ciò che è verosimile che possa accadere e per questo più prossimo al reale. Non è così. La realtà chiede attenzione, reclama, grida la sua presenza: sono viva. […]
Il fantastico cavaliere Don Chisciotte della Mancia vede dei mulini a vento. Come si sa, per lui si tratta di smisurati giganti «coi quali ho intenzione di azzuffarmi e di ucciderli tutti», allo scopo di «togliere questa mala semenza dalla faccia della terra». Don Chisciotte viene imprigionato e viene riportato a casa. Per lui non si tratta che di un «incantamento».
Appare una locanda: per Don Chisciotte è un castello. Appare, naturalmente, ma non sempre e non ovunque, Dulcinea del Toboso. Appare talvolta la «verità» sotto forma di «quello che è il mio pensiero in questo momento»: «Io ti giuro, Sancio, che sei lo scudiero più corto di cervello che ci sia o ci sia stato al mondo» dice al suo scudiero. Scudiero, a sua volta, vittima di una grande dimenticata di una certa letteratura: la mente. Sancho, che sembra comprendere a tratti la follia del suo cavaliere – a un certo punto, vado a memoria, del tutto imprevedibilmente, lo chiama «figlio di puttana» – ritorna continuamente indietro, pensa di abbandonarlo ma poi cambia idea, convinto che prima o poi arriverà per lui un’isola, nonostante le avventure percorse siano tutte fallimentari.
Avremmo la possibilità di interpretare le gesta di don Chisciotte, per l’appunto, come gesta di un folle, vittima di un’illusione della mente. Ma al tempo stesso, potremmo rovesciare la prospettiva: ciò che per la mente è reale, è reale? Ecco la realtà.
Quello che don Chisciotte e Sancho compiono non è nient’altro che un cammino del pellegrino. Si pensi a un cammino. Il cammino separa una partenza da un arrivo, un luogo da un altro. Il tragitto è pieno di spazi intermedi: è tutto uno spazio intermedio. Un tempo da dimenticare e uno da percorrere il più velocemente possibile. Il cammino del pellegrino no: il suo non è un percorso, bensì una transizione. Nel cammino del pellegrino, gli spazi intermedi sono sempre vivi: non sono più intermedi. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta, bensì viverli. Non occorre narrarli – avremmo ben poco da dire, saremmo distratti, non vedremmo l’ora di arrivare. Il pellegrino vive ogni momento. Nel suo cammino, spazio e tempo significano molto. Il suo è un cammino di transizione. Ogni spazio è reale. Ogni tempo è reale. Così, la letteratura: vive in ogni singolo respiro. Quindi: muore. Don Chisciotte vive ogni momento. Il cavaliere cammina con il suo scudiero, fino all’imbrunire, e non pensando all’imbrunire, stando solo nel presente, lungo un sentiero indefinito. Don Chisciotte vive ogni momento. Il suo è un cammino di transizione. Ogni spazio è reale. Ogni tempo è reale.
Don Chisciotte non è comico, o surreale: è reale.
Ecco lo spazio, vuoto e pieno al tempo stesso, in cui cade la letteratura: si chiama realtà. […]
La mente dello scrittore, e quindi la mente dell’essere umano, come sappiamo, è perennemente invasa di pensieri. L’attività mentale, il turbinio della coscienza, pervade dannatamente l’essere umano, che segue i giochi della mente identificandosi con lei. Io sono i miei pensieri, pensa l’essere umano, e così fa lo scrittore, che può cadere, mentre scrive, dentro il condizionamento della mente. La nostra libertà è condizionata. La letteratura è il luogo per liberarsi da ogni condizionamento. Può la letteratura liberarsi dalla mente? Può accettare, di converso, che la mente è reale, che i giganti di Don Chisciotte sono reali? Può l’autore permettere a quei giganti di apparire senza condizionamenti, senza averli progettati, senza averli previsti, come una visione, un’apparizione, una rivelazione?
Per chi abbia mai praticato una qualche forma di meditazione sarà abbastanza evidente quanto qui segue: che per far sì che la mente sia libera non basta vedere che oscilla continuamente come un pendolo tra il passato e il futuro, ma che sarà possibile, e necessario, essere consapevoli dello spazio che esiste tra i pensieri. Anche se il movimento del pensiero sembra molto rapido, ci sono delle interruzioni, degli intervalli tra i pensieri. Se si guarda bene, se si osserva, è possibile vedere che quel silenzio, quell’intervallo, non appartiene al tempo. Quello è uno spazio libero. Libero totalmente dal condizionamento. La mente, quando smette di conferire continuità al pensiero è calma, e questa calma non è indotta: non ha alcuna causa.
Ecco che compare la letteratura.
Questo, che è un processo umano, è un processo profondamente artistico o, se vogliamo, letterario.
Esiste cioè un’energia che non fa parte del campo del pensiero, che non è frutto di un progetto o di una trama o di uno stile, e addirittura non fa parte neanche del vasto territorio dell’invenzione. La mente deve smettere di essere schiava del pensiero. Il pensiero opera nel tempo e produce continuamente invenzioni: trame, colpi di scena, suspense, cliffhanger… confessioni familiari, interni piccolo borghesi, prurigine. Tutto questo, tuttavia, non ha nulla a che fare con la creazione. Inventare non è creare. Il pensiero non sarà mai creativo, perché è sempre condizionato: quindi non sarà mai libero. Quell’energia, che chiamerei letteratura, non è un prodotto del pensiero: è creazione.
Per «contemporaneo», allora, si intende ciò che in quanto non attuale non è visibile, e tenta una letteratura come pratica meditativa. Un testo inteso come stato, capace di diventare più grande del pensiero, fuori dunque dall’antica polarità del bello/brutto, mi intrattiene/non mi intrattiene.[…]
Per alcuni psicologi, i tratti della personalità dei bambini tra i tre e i sei anni si sviluppano in modelli di comportamento che durano per tutta la vita. Questi modelli vengono poi rafforzati dall’ambiente, che rispecchia e rafforza questi tratti. Dunque: si costruisce una maschera e poi si indossa quella maschera. Ecco il nostro viso. In seguito all’influenza degli amici e della famiglia, quella maschera diventa il «vero io». Naturalmente, non del tutto. A un livello più profondo, al di sotto della mente razionale, c’è la maggior parte del nostro essere, tutta la zona coperta dalla maschera.
Un pensiero, di notte, ci fa dubitare della nostra autenticità: siamo proprio così? Sono proprio questo? E se fossi quell’altro? Non sappiamo rispondere, però. E dato che non sappiamo rispondere, lasciamo tutto come prima, finiamo per non fare niente. Lo scrittore. L’artista. Il lettore. Devono lavorare per rimuovere quella maschera. Accedere alla parte più profonda. […] Se uno scrittore, un regista, un artista riesce a eludere l’attaccamento all’immagine di sé – quello falsato dalla maschera –, è più probabile che ne emergerà un’esperienza artistica autentica.
Che cos’è l’attaccamento all’immagine di sé? Possiamo aderire all’identità del lavoratore instancabile, per esempio, o a qualunque altra. Ma cosa accade quando perdiamo il lavoro? Ecco un grande sportivo. Ginocchio rotto. Nuova identità da trovare. Non basta, troppo poco. Rimaniamo ancora attaccati alla vecchia identità. Dimenticare l’immagine di sé. Vuol dire, questo, che si propone un’omologazione stilistica per ogni libro, film, dipinto ecc.? Naturalmente no. Semplicemente, essendo il nostro sé mutabile continuamente, ogni artista – e non opera per opera, né capitolo per capitolo, ma attimo dopo attimo – può vivere quest’esperienza, attraverso la sua opera: l’esperienza del mutamento. Vuol dire, questo, che si propone di non scrivere di pezzi della propria vita? Naturalmente no. Ma che sia vivo, il mutamento del nostro ego, nelle pagine. Sempre pronti a ribaltare, a registrare i terremoti. Stando attenti che anche questi atti non diventino estetici. Lo stesso discorso vale, naturalmente, per il lettore, o il fruitore. Uscire dalla propria identità costruita ci permetterà di leggere le opere come non abbiamo mai fatto, istante per istante. Aggiungendo legna al fuoco. Ogni istante è un istante. Ogni istante, una sensazione.
C’è un suono ora, che non è che un suono. Per l’orecchio, il suono è solo un suono, niente di più. La nostra mente aggiunge, modifica, ricama, ricorda. Eppure quello è solo un suono. Sentire quel suono. Sentirlo passare. Questo è tutto.