La recente rarefazione dell’uso del tempo futuro mi sembra il suo complementare, parte dello stesso fenomeno: il dilagare del qui ed ora. Ho la netta sensazione che questo imperativo del presente sia nato non dalla filosofia di vita buddista come ogni tanto si crede, ma dall’ideologia del mercato degli anni ‘80, cioè dalla compulsione al consumo che chiede di festeggiare ogni istante come fosse l’ultimo, godendo del presente, ovvero comprando cose.
Chi dice più “domani andrò al cinema”? Nell’uso comune tempi e modi verbali si sono ridotti, per tutti, è evidente. La scuola rimpiange anche giustamente modi di cui si sta perdendo la capacità, congiuntivi e condizionali in primis, ma è forse l’uso dei tempi che è più specchio dei tempi. Per cui si dirà e si sentirà dire “domani vado al cinema”, il più delle volte, perché qualcosa è successo, nel recente passato.
Il passato remoto ce l’eravamo già giocato tempo fa, nella lingua parlata, se senti dire “quella sera andai al cinema” ti sembra una dichiarazione giurata, la testimonianza di un alibi ad un processo in cui la verbalizzazione chiede la precisione su tutto, tempi compresi. Se è “remoto” è troppo distante, “sono andato al cinema” va meglio, fa sentire meno la vertigine del tempo, ci fa sentire meno vecchi. Poi, se possibile – e se è vero che succedeva così – preferisco dire “andavo al cinema”, cioè facevo questo e quell’altro, pronunciato come raccontassi un rituale, magari pure con un velo di nostalgia se l’azione si è estinta. Ma l’imperfetto è più dolce, il passato remoto è netto, duro, istantaneo, non consente di tirare i fili nemmeno emotivi fino all’oggi, l’azione è morta e sepolta, costringe a fare i conti con la vita che passa.
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