Fino al black-out della pandemia, la sfida tra istituzioni museali e tra imprese culturali e d’arte era quella di architettare enormi progetti espositivi, costi esorbitanti, grandi sponsor e bigliettazione per file interminabili. Un modello bulimico, anche se talvolta dai risultati mediocri, da misurare sulla quantità di ogni variabile. Poi lo stop. A quel punto tutti si sono interrogati: cosa resterà di quel modello? cosa trascinerà con sé, nel prossimo futuro, la convalescenza globale che stiamo vivendo? Quali nuovi profili assumerà ciò che intendiamo come contemporaneo?
Abbiamo provato a girare queste domande a Bruno Racine, direttore a Venezia della Collezione Pinault. Un osservatore privilegiato, che bascula tra il mondo francese e quello italiano. E una figura anomala nel campo dei management d’arte: una lunga traiettoria nel settore pubblico ai più alti livelli (revisore presso la Corte dei Conti nel 1979, poi nell’equipe di Jacques Chirac e di Alain Juppé, direttore degli Affari Culturali della città di Parigi) e alla guida di prestigiose istituzioni (Villa Medici, Centre Pompidou, Bibliothèque Nationale) e tutt’ora nel board del Louvre.
Cominciamo dal suo posto di osservazione, la Collezione Pinault, vale a dire una delle più importanti collezioni private. Su cosa avete riflettuto in questo periodo?
«La sfida principale per noi non è stata tanto quella di attraversare economicamente questo periodo. Certo, sono crollate le entrate, ma il fatto di essere una struttura privata di questo tipo ci ha messo in sicurezza. Tanto che abbiamo rinunciato alla Cassa Integrazione per i dipendenti e dunque non abbiamo voluto pesare sul bilancio dello Stato. In questo modo abbiamo potuto concentrarci sulla visione complessiva di un’esperienza come la Collezione. Dunque, sul senso dei nostri progetti. Anche perché, nel frattempo, alle due strutture veneziane, Punta della Dogana e Palazzo Grassi, se n’è aperta un’altra, importante e nel cuore di una capitale europea, la Bourse du Commerce a Parigi. Peraltro, da due mesi si è insediata una nuova direttrice, Emma Lavigne (già a capo del Palais de Tokio, ndr), al posto di Jean-Jacques Aillagon (ex-ministro della cultura sotto la presidenza Chirac, ndr), quasi a sottolineare l’inizio di una vera fase operativa della Bourse».
E come avete pensato di articolare la progettualità in queste tre sedi?
«Abbiamo scelto fin dall’inizio di non presentare la collezione in modo permanente, ma di realizzare ogni volta una mostra speciale, ponendo lo sguardo sull’insieme di opere con un’angolatura particolare. La sfida che abbiamo è di dispiegare questa strategia in una diversità di luoghi, i due veneziani e la Bourse. Non ci sarà una specializzazione, ma ogni progetto sarà legato alle caratteristiche offerte dai singoli spazi. In altre parole, messo a punto il progetto, si individua il luogo più adatto.
La programmazione veneziana e quella parigina va coordinata, pensata fin dall’inizio insieme. La maggior differenza che mi sembra chiara rispetto a Venezia è che Parigi ha un ritmo più intenso, dunque ha la vocazione per mostre più brevi, nessun progetto può durare il tempo di una Biennale d’arte come qui. E anche per Venezia, comunque, ci siamo orientati su due scansioni: una mostra importante e un programma di eventi più effimeri, performativi e sonori, così da avere anche un doppio ritmo, uno più lento e uno più intenso».
La scelta di leggere la propria collezione da più punti di vista, con più chiavi e strati di lettura, sembra anche una delle chiavi per superare quel sistema espositivo ipertrofico di cui parlavamo. Si può considerare un modello post-pandemia anche per le altre istituzioni.
«Le grandi istituzioni, pubbliche e private, che hanno proprie collezioni faranno sempre più mise-en-scène con propri lavori e con un marketing più fresco e seducente. Quelle mostre onnivore non sono più immaginabili e anche i prestatori sarebbero riluttanti. D’altra parte, ormai è chiaro che anche dal punto di vista scientifico sono soluzioni molto più interessanti, capaci di generare narrazioni diverse e approfondimenti affascinanti. Pesa anche la questione dei costi e alcuni progetti sono diventati impensabili, almeno per le istituzioni pubbliche. E infine c’è un ulteriore elemento: il tema della sostenibilità. Era una tendenza già in essere anche prima della pandemia, ma ora è davvero ineludibile. Penso al dispendio di forze per far arrivare opere da tutto il mondo, l’attenzione negli allestimenti, il riciclaggio di materiale, l’efficienza energetica di produzioni e di edifici. Tutti ormai hanno integrato queste esigenze e sarà una tendenza ancora più forte ora».
Anche da parte dei visitatori sembra cambiata la percezione di cosa sia un museo oggi e di come fruirlo, attraversarlo, viverlo. Forse sono cambiate anche le aspettative del pubblico?
«Forse è troppo presto per sapere se prenderanno piede modi nuovi di fruizione culturali durevoli. Penso al cinema, alla forza con cui è entrato in casa, attraverso le piattaforme on-line e le produzioni di qualità pensate proprio per quel tipo di pubblico e di diffusione. Quello che osserviamo è che, dopo due anni di pandemia, la voglia di tornare sembra molto forte e potrebbe essere una reazione all’isolamento. Di sicuro non è tornato il 100% dei visitatori, questo si registra ovunque. Una parte sembra non voler tornare, forse resiste il timore a frequentare luoghi chiusi. Di sicuro, se prima si diceva “troviamoci al museo”, ora non è più naturale pensarlo. Così, i luoghi d’arte e culturali devono fare i conti con una fruizione diversa. Pensiamo agli ingressi: già con la paura del terrorismo sono diventati lenti, ora con la serie di controlli, le code, le prenotazioni, l’accessibilità alle strutture museali è diventata una batteria di ostacoli»
E questo pone a chi gestisce un museo il problema di cosa sia l’ingresso al museo.
«È una questione che non è solo di emergenza, ma resterà a lungo. La gestione dei flussi ha portato a ripensare il sogno dell’ingresso unico cui ad esempio aspiravano tutti i direttori del Louvre. Quello che abbiamo di fronte è ripensare l’idea fisica del museo, a cominciare dall’ingresso. Le istituzioni pubbliche e private devono reinventare modi nuovi di attrarre i visitatori: tutti dovremmo lavorare su narrazioni inedite e su politiche del desiderio. Gli anglosassoni lo fanno già bene e da tempo per un fattore economico: devono trovare risorse, dunque il fatto di prendersi cura del pubblico era una necessità ben prima della pandemia. Ma questo richiede risorse, capacità umane, produzioni e strumenti culturali inediti. Questo cambia in profondità l’idea che ha di un museo chi gestisce il museo».
Nel mondo dell’arte una parte da protagonista lo gioca soprattutto l’ecosistema privato, dove operano collezionisti, case d’asta, galleristi, mercanti, mecenati: cosa è cambiato per loro?
«Il mercato si muove in una triangolazione tra gallerie e fiere, il collezionismo e le istituzioni private e pubbliche. Queste ultime non possono più comperare da tempo i grandi nomi e contano sulle donazioni, penso alle politiche francesi che permettono di pagare la tassa di successione con opere d’arte.
Le fiere hanno ripreso solo ora e con delle sorprese: di recente, ad esempio, ero a Basilea, per la prima volta senza la presenza di americani e orientali, c’erano solo clienti europei. Eppure, la fiera è andata bene, tutti hanno reagito in modo positivo. Si è rotto un tabù, perché si pensava che le fiere potessero reggere solo con clienti extra-europei. Questo è un primo dato. Il secondo è una tendenza»
Quale?
«Stanno emergendo nuovi mercati. Non tanto geografici, ma di contenuti e di artisti: i musei occidentali, in particolare americani, vogliono voltare pagina rispetto al primato dell’artista bianco e maschile. Con l’emersione di tante donne e di tanti artisti dalle culture, provenienze e sensibilità diverse, minoranze, afro-americani e afro-europei, insomma si possono rileggere tante pagine della Storia e della storia dell’arte. Il Centre Pompidou, ad esempio, con la mostra Elles font l’abstraction, curata da Christine Macel, ha mostrato una pagina sconosciuta, con artiste astrattiste straordinarie.
Vedremo poi in che modo un Paese come la Cina, che vuole affermarsi come superpotenza, abbia anche ambizioni culturali: già hanno costruito enormi musei e di sicuro sosterranno una produzione propria. Nel mercato già si vedono quotazioni di artisti, che da noi sono ancora sconosciuti, ma raggiungono cifre incredibili. In Occidente il mercato dell’arte contemporanea resta effervescente e si muove con grande autonomia e velocità; in Cina esiste un rapporto più ambiguo tra settore privato e controllo statale, dunque è più difficile da leggere».
Una volta lei ha detto in un’intervista che «è più interessante scoprire quanto di contemporaneo c’è nell’antico», piuttosto che pensare a «un semplice allineamento» cronologico. Cosa significa dunque “contemporaneo” per il mondo dell’arte?
«Quando guardiamo al passato, lo facciamo con gli occhi nostri. Il fatto è che è tramontata l’idea delle avanguardie, la fede nella marcia in avanti a forza di strappi. Un tempo questo pensiero era molto chiaro: chi era legato a forme e regole cosiddette “accademiche” non faceva parte del contemporaneo. Oggi, il rapporto col passato si è fatto complesso, disarticolato. C’è sempre una certa tensione alla rottura, ma c’è una relazione più variegata col passato, penso all’uso della parodia o della citazione. Una volta sarebbe stato impensabile. E questo ha modificato la nostra idea di contemporaneità, che è una dimensione complessa anche orizzontalmente, in senso geografico: per un artista indiano o nigeriano, la storia dell’arte occidentale è solo un bagaglio, un’eco lontana ed estranea. Per un giovane artista occidentale scegliere se utilizzare o meno la pittura come linguaggio espressivo può essere ancora una questione difficile, ma è un interrogativo che altrove non ci si pone e lo stesso stop-painting non ha alcun senso. Alla fine, chiederci cosa sia oggi la nostra idea di contemporaneo è diventata una questione molto più complicata di quello che sembra».
Foto: Matteo De Fina, Courtesy Palazzo Grassi