Cosa c’è in comune tra il pettegolezzo, l’ingiuria, Wikipedia, gli zombie, i tatuaggi, Pinocchio, i lupi, il jazz, la retorica della scienza, la teoria dell’identità, i diagrammi in filosofia, Deleuze e la semiotica pura, Roland Barthes, Tex, Arcimboldo, il testo poetico e la teoria dell’enunciazione? “Sono tutti biglietti d’invito”, dirà il “lettore ingenuo”, quello che si ferma alla prima parte del titolo. “La metodologia e lo sguardo semiotico”, dirà il lettore generoso, quello che legge anche la seconda e sa che è quella più importante, perché conosce qual era la disciplina a cui Paolo Fabbri aveva dedicato senza alcuna esitazione la totalità della sua vita. “La cultura e l’arguzia dell’autore”, dirà il lettore non-semiotico, che di Paolo Fabbri conosceva però le doti di avido lettore, di straordinario conferenziere e di intellettuale che aveva seminato le sue idee nei lavori di molte persone, molte più di quelle che sono sembrate accorgersene. Ma il “lettore modello” del suo testo, in realtà, apre un’altra posizione di soggetto e chiama in correità un altro lettore, che segue piste e abita profondità. Un lettore descritto nel saggio su Zadig e il lupo, capace di “trasformare l’impercettibilità in presenza” e incontrare il libro “attraverso la mediazione dei segni”. Perché Paolo Fabbri si muoveva in muta, come il lupo abile nel cancellare le tracce che ha lasciato, nel “camouflage delle proprie tracce sull’intenzione di chi lo pedina”.
Alla ricerca di un Virgilio, il lettore che segue piste non può che fermarsi spaesato. Eppure, almeno un Virgilio c’è, e il lettore dovrebbe “partire dalla fine”, come suggeriva Greimas, al cui organon semiotico Fabbri non ha mai smesso di affidare quella che, nella sua prefazione, Stefano Bartezzaghi ha giustamente chiamato la sua “capacità di professare la semiotica, rappresentandola attraverso la sua voce”. Tuttavia, il Virgilio di questo volume non ha mai smesso di imparare la lezione del maestro e, muovendosi in muta, nasconde anche lui le tracce che lascia, tanto che il suo aiuto più fondamentale non solo lo scrive in postfazione – sorta di ghost track che segue la fine della bibliografia – ma lo inserisce nella nota 16 di pagina 397, esattamente il posto in cui non lo si cercherebbe mai: “si spiega così la ragione per cui i ragionamenti di Paolo Fabbri colpiscono innanzitutto per la loro originalità di vedute, per la loro costitutiva imprevedibilità. Un argomento generalmente affrontato a un livello viene da lui trasportato su un altro, e ripensato a partire da lì”.
Gianfranco Marrone ha ragione: in questo libro, Fabbri prende un argomento e lo trasporta su un altro livello: questo trasporto, questa serie di passaggi, produce proprietà emergenti, che non era possibile vedere prima del passaggio stesso. Per questo Fabbri si occupa di teoria quando parla di lupi, di metodologia quando parla di pettegolezzo e di zombie, di epistemologia quando parla del jazz e di come “il linguaggio inventi le sue regole”, mentre si occupa di uno strano livello empirico fatto di aragoste, astici, gamberoni e schizzi “a testa di mucca” in un saggio dedicato alla filosofia e alla “semiotica pura”. È quindi del tutto normale che il lettore rimanga spaesato: è come se dentro a quello che si cerca ci fosse sempre qualcos’altro, mentre quello che si cerca lo si può trovare soltanto spostandosi accanto, nella casa di un vicino improbabile: Pinocchio vicino di casa di Barthes? Tex abitava forse accanto a Deleuze?
Perché cosa hanno davvero in comune tutti questi saggi, tutti questi biglietti d’invito? La mia impressione è che quello che davvero hanno in comune sia una sorta di punteggiatura del pensiero, una cadenza, un andamento che ha un effetto patemico sul lettore. I musicologi la chiamerebbero una “cadenza d’inganno”: “un punto e virgola mascherato da punto”, direbbero, in perfetta vesta semiotica da camouflage. Ecco, ad esempio, che nel finale del Guglielmo Tell di Rossini a un certo punto lo spettatore si aspetta proprio quella nota (la tonica), la desidera, la esige, perché l’autore ha sapientemente costruito quell’attesa e quel desiderio e l’ha portato lì, davanti a casa sua e a tutto quello che ha di più proprio e di familiare. E quindi il lettore vuole entrare, perché crede di sapere cosa troverà. E allora mette la mano nella tasca del cappotto, prende la chiave, la mette nella toppa come ha fatto altre mille volte prima di quella, apre la porta et voilà: dentro c’è la casa del vicino. Quella accanto alla sua. Quella che in fondo un po’ conosce, ma non si aspettava di trovare lì. Accanto, appunto.
La cadenza d’inganno è eletta da Fabbri ad architettonica sistematica del pensiero, ma non per vezzo personale o voglia di stupire il lettore, ma per un motivo teorico profondissimo, che spiega anche la continua insistenza delle sue pagine sulla traduzione come trasduzione, e cioè sull’operazione che è in grado di produrre proprietà emergenti nel passaggio da un dominio a un altro dominio eterogeneo. “Teoria del segno non vuole affatto dire una semiologia generale, ma […] una “trans-semiotica”, una specie di “trasduzione”, in cui il passaggio tra sistemi semici provoca un incremento di senso, una morfogenesi”. Una cosa che, Fabbri dixit, “sta cominciando a capire l’intelligenza artificiale” e che – ora ce lo attendiamo – è spiegata nel saggio su… Pinocchio. Quando un tema viene variato, trasposto, tradotto – come ad esempio succede alle mille varianti di Pinocchio – esso arricchisce al contempo la lingua di partenza e la lingua di arrivo, che sono concatenate e che producono proprio in questo concatenamento tutta una serie di proprietà che certamente prima non possedevano, ma che ora sono loro proprie. Per questo la casa che stai costruendo la devi abitare attraverso la casa del vicino: solo in quel modo può essere davvero tua. E allora Fabbri ci mostra come la filosofia si spieghi attraverso l’astice e lo schizzo “a testa di mucca” e la retorica della scienza attraverso il pettegolezzo e il tatuaggio, in un assemblaggio in cui voci eterogenee sono riunite insieme in assemblea e il cui dialogo dà vita a una mozione che non sarebbe stata possibile senza l’assemblaggio. Quello che conta è la mozione, certo, ma la mozione dipende dalle voci e le voci dipendono dall’assemblaggio. Ogni saggio di questo libro è come un assemblaggio (agencement), un piccolo concatenamento in cui attraverso l’occhio di Fabbri siamo finalmente in grado di vedere tutto il macchinario che l’ha prodotta, là dove prima sapevamo soltanto leggere la mozione. È come se Fabbri ci offrisse un nuovo occhio, un occhio “macchinico”, nel senso in cui Vertov diceva che certe cose potevano essere percepite solo attraverso la macchina da presa, in un concatenamento tra occhio e cine-occhio. Da qui l’insistenza continua di Fabbri sul “macchinico”, in un corpo a corpo col pensiero di Deleuze su cui in futuro si dovrà riflettere. Da qui il suo amore mai celato per la soggettiva libera indiretta di Fellini e di Pasolini, che non a caso è possibile soltanto al cinema e non nella percezione naturale: concatenamento tra occhio e cine-occhio. Fabbri si muoveva sempre in traduzione, certo, ma la traduzione era trasduzione, e cioè un passaggio tra livelli che – solo – ti permette di vedere delle cose che non ti era possibile vedere prima.
Da qui quello che finalmente “sta cominciando a capire l’intelligenza artificiale”, l’intelligenza macchinica che, come nella soggettiva libera indiretta, concatena un occhio macchina a una serie di occhi umani, che producono dati. Chi, come è capitato sempre più a chi scrive, si è trovato a lavorare coi bioingegneri per progetti semiotici, conosce quel piacere straordinario – vero e proprio “diletto del sapere” fabbriano – che segue la lettura di quello che la macchina vede dentro i tuoi dati, le tue categorizzazioni e le tue valorizzazioni. E che tu non vedresti mai da solo senza un occhio macchinico. La cosa straordinaria dell’intelligenza artificiale, che interessava a Fabbri, non è la sua capacità di analizzare enormi quantità di dati, ma la sua capacità di vedere proprietà emergenti che sono percepibili soltanto nella trasduzione uomo/macchina (data mining). “Ho l’impressione che l’intelligenza di Deleuze consista nell’aver capito alcune cose che sta ora cominciando a capire l’intelligenza artificiale: diversamente dalla logica, la questione non è di costruire dei sistemi logici preliminari e poi cercare di vedere come funzionano nel linguaggio, ma di assemblare alcune unità molto semplici e poi interessarsi alle proprietà emergenti. La teoria della “muta” di Deleuze consiste proprio nel vedere come, a un certo punto, delle proprietà emergenti si organizzano e prendono significato, che è il contrario della vecchia logica e della vecchia semiotica”1P. Fabbri, “L’oscuro principe spinozista: Deleuze, Hjelmslev, Bacon”, Discipline filosofiche, n. 1 (1998), anche in https://www.paolofabbri.it/saggi/oscuro_principe/.
A differenza di quello che si crede, l’euristica dell’intelligenza artificiale non è quantitativa, ma qualitativa: è uno sguardo che nasce nell’assemblaggio e dall’assemblaggio.
Ed ecco quello che è stato Paolo Fabbri per noi. Aveva uno sguardo che oggi definiremmo macchinico, nel suo senso più nobile. Quello sguardo che a partire da un insieme di dati è capace di farti vedere delle cose che non sapresti vedere altrimenti, enucleando le proprietà emergenti solo virtualmente presenti all’interno di quegli stessi dati. In tutti questi anni, il data mining di Paolo ci ha accompagnato davanti alla casa del vicino e – questo libro ce lo dimostra – ce l’ha ammobiliata esattamente come se fosse la nostra.
Questo intervento esce sull’ultimo numero di Versus