Afferrare il tempo con il teatro per superare in un colpo accelerazionismo e rallentismo
Sulle pagine dell’Espresso di qualche settimana fa, Donatella Di Cesare si interrogava su due nuovi protagonisti della vita politica: accelerazionisti e rallentisti. Con ironia, e con precisi riferimenti bibliografici – da Accelerazione e alienazione di Hartmund Rosa a Il tempo della festa di Furio Jesi fino al Manifesto accelerazionista di Williams e Srnicek – l’autrice allargava la prospettiva della velocità alla cultura e alla società: «un sentimento accelerazionista attraversa la cultura e l’arte contemporanee […] le strategie di rallentamento, le fughe estemporanee, sono un palliativo fittizio e anacronistico. Perché non mutano il nostro rapporto con il tempo».
La questione, insomma, all’ordine del giorno è ancora il Tempo, e come affrontarlo. Abbiamo provato a lanciare qualche argomento, su cheFare, riflettendo sul “tempo sospeso” del teatro, ossia proprio sulla capacità di mutare, come afferma Di Cesare, il nostro rapporto con il tempo.
Scrive Jan Fabre nel suo Giornale notturno: «Io ho il tempo. Io creo il tempo. Io sono il tempo. Ed entro nel mio stesso tempo». E ancora, poco più avanti: «Un attore o un danzatore incarna un’alleanza segreta col tempo» (Giornale notturno II, ed Cronopio). Sono forti, sublimi suggestioni di un artista che non ha mai fatto sconti nel suo aspro confrontarsi con il tempo della vita e della rappresentazione.
È vero: in una sala teatrale, in qualsiasi sala teatrale – dalle più grandi e classiche, alle più piccole e contemporanee – il tempo sembra sempre leggermente diverso. Ovvio che sia così: lo avvertono tutti, più o meno chiaramente, che qualcosa cambia nel buio della platea, tanto che sembra quasi di dire una banalità, di fare una dichiarazione che sarebbe piaciuta a Jacques de la Palice.
La domanda allora è un’altra: perché? Soprattutto, perché passiamo ore a teatro (almeno chi ci va)?
Allora, proprio allo scopo di approfondire (e magari rilanciare) il discorso, ho provato a fare un piccolo “sondaggio” on line, una semplice chiamata, senza alcuna pretesa né di completezza né di esaustività.
Solo per capire, tra amici e colleghi, quale spettacolo avesse segnato maggiormente il proprio tempo di spettatore. Ne è emerso una sorta di straordinario e improvvisato catalogo, un elenco della memoria e del sentimento, fatto di suggestioni, evocazioni, ricordi di spettacoli davvero “fuori formato”, che pure nella loro ampiezza spesso hanno segnato la storia del teatro italiano e internazionale. La cosa divertente, di questo approssimativo sondaggio, è che persone diverse ricordavano lo stesso spettacolo ma con durate differenti: per qualcuno è durato 10 ore, per un altro solo 7, per un altro ancora 9.
Ma quando inizia uno spettacolo? E quando finisce?
Ci fu un’epoca, non troppo lontana, in cui nella piccola Pontedera agiva (appartato, quasi celato) il maestro Jerzy Grotowski con il suo prestigioso Workcenter – peraltro ancora attivo. Ebbene lo spettatore era “invitato” a vedere una delle famose “azioni” del Workcenter con giorni, settimane di anticipo: arrivava una telefonata che diceva, più o meno, “il maestro ti aspetta tra un mese”.
Ed era in quel momento, con quella telefonata, con quell’appuntamento, che iniziava lo “spettacolo” di Grotowski. Uno, due mesi prima: nell’attesa era già l’evento.
È nell’aspettare che cambia la percezione? In questo, gli innamorati sono preparati: lo sanno che il tempo dell’attesa dell’amato o dell’amata non passa mai. Allora sì, va bene, ma forse c’è anche altro.
Pare proprio, e lo so per esperienza, che si possa stare a teatro anche per 12 ore di seguito, o addirittura per 24, come per la gara di Le Mans: una giornata intera, passata assieme a attori e attrici che vivono, dormono, agiscono sul palco. In queste ore che mutano la percezione dello spettatore, si arriva a creare un’anomala, unica, comunità in cui le regole del tempo ufficiale sono sospese, annullate. Greenwich si sospende, quando si alza il sipario.
All’opposto, se quel contagio, quella comunità non si crea, può capitare di trovare insopportabilmente lungo uno spettacolino di venti minuti. Viene da dire, dunque, che la qualità incida sulla quantità.
Lo sapeva già bene Bob Wilson, il grande regista texano, diventato una sorta di “griffe” internazionale: a partire dai sui indimenticabili Ka Mountain a Shiraz, in Iran (un allestimento ininterrotto per 7 giorni), Deafman glance (4 ore circa) o Einstein on the Beach (5 ore), Wilson si è fatto artefice di una sistematica sospensione, di una dilatazione del tempo nelle sue concrezioni gestuali e spaziali.
Nella sua raffinata estetica, il fluire del tempo è inciso con la pratica del montaggio, del gesto, delle luci. Non è un caso quindi che il nome di Wilson ritorni spesso anche nell’elenco delle evocazioni, dei ricordi emersi dal mio personalissimo sondaggio on line.
E ancora più spesso torna il nome di Luca Ronconi, maestro italianissimo di un teatro senza tempo. A Ronconi dobbiamo una continua, squisita, indagine sulla percezione e sulla dilatazione del tempo, diventata quasi proverbiale: non si usciva mai indenni dalla visione di uno spettacolo di Ronconi.
Giorgio Gaber ci scherzava su, sulle ore da passare in sala per assistere a uno dei capolavori ronconiani: di fatto, un lavoro di 4 ore era normalmente considerato “breve” dal maestro. Ma Ronconi, fino alla sua ultima creazione, ha scherzato con il tempo: basti pensare, a titolo semplicemente simbolico, a quell’orologio che attraversava la scena, come fosse vivo, nell’ultima sua regia: il Lehman Brothers, scritto da Stefano Massini, che in 5 ore raccontava sostanzialmente un secolo di storia economica occidentale.
Di Luca Ronconi si ricordano anche la memorabile (e scomodissima per chi vi assistette) versione dell’Orestea, del 1972; e poi I dialoghi delle carmelitane, Strano interludio, La centaura, Professor Bernhardi, Le due commedie in commedia. Una media di almeno 5 ore per spettacolo: quanto fanno in totale? E che dire poi dei colossali Ignorabimus, di 12 ore e Ultimi giorni dell’Umanità al Lingotto di Torino. Della sterminata produzione ronconiana, c’è chi ricorda i Fratelli Karamazov, in due serate di spettacolo, o il Pasticciaccio gaddiano messo in scena a Roma, o il “gioco” scientifico di Infinities alla Bovisa di Milano. Giorni, settimane, mesi interi e ininterrotti di teatro.
Tra i maestri della “lunga durata”, citato da molti nel mio sondaggino appare certo il quebecchese Robert Lepage: ricordo ancora la versione integrale de I sette rami del fiume Ota, visto a Montreal a metà anni Novanta: 12 ore, una giornata intera con tanto di pranzo.
Ha offerto ristoro anche il tedesco Peter Stein, uno dei grandi maestri della regia europea, per il bellissimo I Demoni, da Dostoevskij, fatto nella sua tenuta di San Pancrazio in Umbria. Una giornata memorabile per molti, come lo fu la notte (dal tramonto all’alba) passata di fronte alla sua straordinaria versione dell’Orestea firmata da Stein nel 1974.
E se i più grandi hanno ancora nel cuore il Mahabharata, il poema epico indiano allestito da Peter Brook (per alcuni 11 ore, per altri “solo” 9); oppure la Trilogia shakespeariana inventata da Carlo Cecchi a Palermo; i più giovani sono rimasti folgorati dai capolavori del lituano Eimuntas Nekrosius (almeno 4 ore per ciascuno dei suoi Shakespeare, o 6 ore per L’idiota); dal commovente Fratelli e Sorelle del maestro russo Lev Dodin o, più recentemente, dallo struggente Gabbiano, diretto da Tomi Janezic, visto a Firenze, della durata di 7 ore: una grande, totalizzante poesia attraverso Cechov.
A fronte di chi non si è mai dimenticato il Faust di Giorgio Strehler o il Principe costante che vide il ritorno alla prosa di un grande artista come Pier’Alli, nel 2002; c’è anche chi evoca le 12 ore trascorse alla Corte d’Onore di Avignone assieme alla trilogia del libano-canadese Wajdi Mouawad: Littorals, Forests e Incendies, divisi solo da brevi intervalli. Non mancano, in questo elenco, i maratoneti italiani.
Antonio Latella, ad esempio, è un abbonato alle corse di fondo teatrali: dal recente e travolgente Santa Estasi alla storica maratona Amleto, in scena dalle 10.30 di mattina fino alla mezzanotte.
E il Teatro dell’Elfo di Milano non è da meno: sia con Afghanistan (opera corale che si può vedere in due puntate o in una unica versione di oltre sei ore) al classico Angels in America di Tony Kushner, fatto per la prima volta nel 2010 in versione integrale, che tornerà in scena tra breve, al Napoli Teatro festival (20 e 21 giugno): oltre 7 ore di spettacolo.
Ma il recordman della sospensione temporale, il fantasista del tempo ricreato sembra oggi essere proprio lui: quello Jan Fabre citato all’inizio.
Per Mount Olympus, scintillante e inafferrabile reinvenzione dei miti classici greci, ha allestito un viaggio di 24 ore. Qualche branda per gli spettatori, thermos di caffè, sacchi a pelo per gli attori (che si sdraiavano sul palcoscenico), e la voglia, condivisa, di passare insieme tutto quel tempo evocando eroi e tragedie.
Perché Fabre chiede al pubblico di condividere simili esperienze? E perché ogni singolo spettatore accetta di buon grado questi orari allucinanti?
Ha senso chiudersi in uno spazio buio per ore e ore?
Senza chiamare il causa le teorie delle ricezione (né la società dello spettacolo, che qui di ben altro si parla) una prima risposta la troviamo ancora nel Giornale Notturno, in cui Fabre descrive una rappresentazione fatta a Londra nel 1986, ai suoi esordi di regista: «…La Royal Albert Hall era tutta esaurita in ogni ordine di posto, cinquemila spettatori. Persino Mick Jagger e David Bowie avevano acquistato un biglietto per il mio spettacolo “il potere delle stoltezze teatrali”.
La prima ora di spettacolo è stata pura anarchia […] Alcuni spettatori si comportavano come degli ultrà. Gridavano in modo opportuno e inopportuno, ciò che sentivano e pensavano dello […] Dopo due ore e circa duemila spettatori che avevano abbandonato rumorosamente la sala, l’atmosfera è radicalmente cambiata. È sceso un silenzio totale. La tensione si tagliava col coltello.
Lo stupore e il rispetto per i miei attori e danzatori vibrava nell’aria. Loro e il pubblico si sono avvicinati. In questo scambio di esperienze si sono toccati profondamente gli uni con gli altri. Il ricordo di questa serata sarà una ferita infetta (e questo è ciò che il teatro e l’arte devono provocare). Alla fine dello spettacolo i miei eroi tragici hanno ricevuto una standing ovation durata più di dieci minuti. L’applauso è stato animalesco e altrettanto audace quanto la rappresentazione».
Ecco, allora, un mistero mai chiarito, quello della partecipazione esperenziale ad un rito: un animalesco e audace rito primordiale, che è bisogno profondo di ciascuno di noi. Nel teatro c’è l’antico e il moderno, l’attuale e l’inattuale, presente e futuro. Per questo suona utilissima una considerazione fatta da Giorgio Agamben: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo, colui che non coincide perfettamente né con esso né si adegua alle sue pretese, ed è perciò in questo senso inattuale.
Ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».
Non accelerazionisti né rallentisti, insomma: meglio quando si resta un po’ fuori, lontani, distanti, per osservare il tempo. Proprio come a teatro.
Immagine di copertina: il pubblico alla Court d’Honeur di Avignone.