Autobiografia di un critico teatrale

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“La colpa è di Rousseau!” disse qualcuno: e in effetti è tutta responsabilità del ginevrino se l’autobiografismo ha attecchito come genere letterario, o come “tecnologia del sé”. Il racconto della propria vita, specie se declinato in forma più o meno romanzata, fa bene: il passato prende compiutezza e senso, e le tappe della propria esistenza – anche e soprattutto quelle sbagliate, gli errori inevitabili – si illuminano di una luce diversa, acquistano un motivo. E di errori devo averne fatti tanti: si è trattato di stare sempre dalla parte sbagliata.

È una “prerogativa” che si acquista con il tempo, con costanza, quella di tenersi nelle minoranze, di provare a dire sempre una parola “alternativa”, addirittura controcorrente. La pratica del pensiero critico non è facile, non è comoda. Fare come i bambini: chiedere sempre perché, provare a tenere sempre il dubbio, inseguendo un’utopia, ancorché blanda, riformatrice rispetto all’impossibilità ormai conclamata di essere rivoluzionaria.

Così una giovinezza fatta in politica, trovando nel socialismo una forma possibile di stato sociale, di quelle egalitè fraternitè libertè sempre evocati e mai applicate. A vent’anni attivo nella Pantera dei movimenti studenteschi di allora, poi occuparsi di immigrazione e di cultura africana, accompagnando all’alba in Questura quei “vucumprà” – come erano sbrigativamente chiamati – che provavano a districarsi tra le mille burocrazie italiane. Vita di provincia la mia, sempre apolide al seguito di una famiglia girovaga, a lungo nel centro Italia, ma adolescente a Pesaro e studente universitario a Urbino, a studiare filosofia del Diritto con un prete, Don Italo Mancini, poi scoperto fondamentale punto di riferimento.

E un viaggio-esperienza a PyongYang, Corea del Nord, per il Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti nel 1989. Viaggio che cambia la vita: tre settimane come membro della delegazione italiana, guidata dall’allora giovane Gianni Cuperlo, per rendersi conto della assurdità del comunismo applicato, tanto da far svanire il sogno che si stava vivendo di una “sinistra” mondiale, giovane e bellissima. Protestammo per i fatti di Tienanmen di fronte al grande leader Kim Il Sung e di lì a poco sarebbe cambiato il mondo, con il crollo del muro. Ma prima ci fu tempo per andare alla Grand Arche, a Parigi, nel bicentenario della Rivoluzione. Però di quella generazione di belle speranze, quella degli attuali cinquantenni, ben poco è rimasto: generazione dissipata, spersa in fallimenti privati e collettivi.

E, in quel mondo che franava, scoprire il teatro. Pratica umana e politica come poche altre: comunità che si incontrano, persone che parlano. La scandalosa presenza e resistenza dell’Essere Umano di fronte alla virtualità che cominciava ad andare di moda. Parole che si facevano corpo, corpi che si facevano parole. Spettacoli memorabili per me giovane: la Raffaello Sanzio del Teatro Khmer, poi le Albe di Ravenna, con il teatro meticcio romagnolo e africano; e ancora il Teatro Settimo con un omaggio a Marquez che aveva il sapore del caffè caldo bevuto assieme a fine di un racconto meraviglioso.

Comunità e visionarietà, impegno politico e poetico: la pratica del teatro è un rito laico, laicissimo, che pure continua immutato dal V secolo avanticristo. Eravamo spettatori nel Teatro di Dioniso, e lo siamo ancora oggi. Ero stato spettatore bambino di Dario Fo al Tendastrisce di Roma, portato dai miei genitori, e fu un’emozione: la stessa che provo oggi e che ancora mi porto dietro.

E se pure ho provato a giocare all’attore – ma ero un cane – e al regista – ma senza un universo mio da condividere con il pubblico – ho infine trovato nell’anomala forma della critica teatrale un senso, un agire concreto. E da laureato in Legge mi sono trovato, decenni dopo, a insegnare critica allo Iuav di Venezia e ora alla Sapienza – ma sempre da “esterno” –, cercando di fare agli altri quello che non era stato fatto a me: ossia passare il testimone, formare nuovi critici creando le condizioni della mia sostituibilità. A fronte di generazioni precedenti ispirate da Kronos o Ugolino, immobili nei loro posti di potere ben oltre l’età pensionabile, abbiamo provato – certo assieme ad altri – a dialogare in modo aperto con chi veniva dopo. Il teatro, questo grande magma creativo, uguale e diverso a se stesso, è stato dunque il terreno fertile, da investigare e dissodare sempre di nuovo.

Luogo di democrazia discorsiva, di confronto, di innovazione e di tradizione, di protesta e conservazione, ma anche e forse soprattutto di educazione sentimentale. La pratica politica, a questo punto impossibile altrove, si è declinata quindi nel teatro, in ogni spettacolo e in ogni articolo scritto come recensore.

Provando, in questa prospettiva, a ridare smalto e dignità alla pratica del giudizio. Nel momento in cui ogni livello di giudizio – dall’arbitro di calcio alla corte costituzionale – è rinnegato e ricusato, nella stagione del libero arbitrio da social, nell’era dei “like”, si tratta di riflettere ancora e sempre sul pensiero critico come diritto-dovere, non solo della prassi giornalistica, ma anche come modo di vivere, di stare al mondo. Ovvero di analizzare-valutare-giudicare tutti i tentativi di “persuasione”, violenti o meno, cui siamo costantemente soggetti. Non accontentarsi, insomma, come scrive Carla Benedetti, di ciò che viene dato “per evidente o necessario in un determinato momento della storia”, ma di inseguire una critica che abbia “l’attitudine a disfare le credenze, le finzioni e le illusioni culturali”.

Si tratta di prendere posizione, di schierarsi, di fare. Magari, semplicemente, di dire no. Critica come azione, allora: era questo il progetto del me ventenne di allora. Anche quando, sulle pagine di un giornale di provincia, “stroncavo” il Ronconi de “L’uomo difficile”: credevo di sapere, credevo di capire e non avevo capito niente.

Da quei primi articoli sono passati anni, e pensieri e libri letti o scritti e incontri con gli artisti che ho avuto la fortuna di intercettare. Da Ascanio Celestini a Emma Dante, da Arturo Cirillo a Roberto Latini, da Ilaria Drago a Valerio Binasco ad altri – della mia generazione o meno – che ho seguito e ascoltato sempre con attenzione. Fino a Leo de Berardinis, quel gigante scontroso e generoso, che ho avuto l’onore di intercettare in stagioni di grande creatività: il Festival di Santarcangelo sul finire degli anni Novanta e poi il Teatro San Leonardo a Bologna come luoghi di pensiero e di presa di posizione poetica e politica.

Tra i tanti che rimpiangono – vedove e orfani inconsolabili – il Pasolini mutato in retorico santone e profeta, mi trovo a rimpiangere proprio Leo. Oppure, semmai, Flaiano, o ancora Manganelli o Sciascia: non meno acuti del Pierpaolo nazionale, ma forse più umani, certo più (auto)ironici. E a questi tre, in una possibile costellazione di riferimento, si aggiungono nel tempo Savinio, Garboli, Chiaromonte o Arbasino, esempi di critici-non critici che tanto hanno dato al teatro.

Così, in quei teatroni, in quegli edifici per lo spettacolo austeri e cialtroni allo stesso tempo, che sono sostanziali all’urbanistica italiana, antichi mausolei o fabbriche dismesse, mi sono trovato a passare serate – cinque sere a settimana – e a mettermi in gioco fisicamente e emotivamente. Fare critica, scriveva Federico Ferrari nel suo “Costellazioni”, significa anche “ri-cor-dare”, ossia ridare al cuore quella centralità che troppo intelletto cerca di scalzare: ridare importanza al sentimento, alla passione, all’amore. Inseguire la passione per una vita, con la certezza – ed è qui l’utopia – che prima o poi si concretizzi. Sono istanti, frammenti di struggimento, segnali di un’umanità com’era e come sarà. Il teatro è questa cosa qua: giocare, assieme, alla poesia. Che può far male, nella sua “bellezza terribile”, che può ferire o illuminare, ma sempre comunque sa stare al mondo, sa essere specchio del mondo.

E come tale, il teatro soffre quando la società soffre: quando la politica farlocca di queste stagioni dimentica l’arte, sfrutta la generosità degli artisti – costretti a lavorare sottopagati o gratuitamente – invoca la dittatura del botteghino a scapito della libertà creativa. Anni di censura, diretta o indiretta. È forse anche per questo che la critica, almeno per come la vedo e provo a viverla, ha ancora senso: lo ricordava George Steiner, non certo un rivoluzionario, che la critica serve a creare ponti, a rompere le barriere del linguaggio, a mettere in rete. Nell’eterno ritorno dello “scontro di civilità”, degli estremismi religiosi, delle derive spiritualistiche, la critica tesse reti di ragione tra possibilità diverse.

Non solo: mai come oggi occorre rispettare l’Opera nelle sue realizzazioni, tenendo alta la guardia contro ogni censura e autocensura. La libertà, in fondo, è un bene che ci è caro, vale la pena difenderlo. Pagando anche qualche prezzo, dal momento che non è facile restare non allineati, essere sempre “esterno” anche quando si potrebbe condividere, mantenere – per quanto possibile – una nota stonata mentre in tanti si accordano. Non è eroismo, gli eroi sono ben altri, né presunzione: è semmai sociopatia o magari una personalissima deontologia. Di fatto, però, arrivato ai cinquanta, mi pare sempre più che il teatro possa e debba essere dei non allineati, delle minoranze, di chi si ostina a voler dire qualcosa. Teatro che recupera spazi, che crea “beni comuni”, che si colloca sapientemente come intermediario tra cittadino e istituzioni, tra centro e periferia, tra individualità e collettività.

La scena italiana è creativa e generosa – forse amministrata male, certo povera, sicuramente dimenticata o quanto meno trascurata dalla politica. Eppure vive di fermenti intastancabili, che ogni sera si rinnovano e si trasmettono: dal centro sociale al Piccolo di Milano, dai palcoscenici ufficiali a quelli improvvisati, il teatro è – o può essere – la prova di un mondo altro. Non necessariamente migliore, ma acutamente critico rispetto al proprio presente. È questo che cerco, nella mia pratica di spettatore professionista, ossia l’ipotesi di uno sguardo diverso.

Io che guardo, io che sono guardato da chi sta in scena, rifletto e mi rifletto nelle parole e nei corpi degli attori. Insieme andiamo, al di là di ogni sconfitta. Con il più antico, sotterraneo, motore d’innovazione che l’umanità abbia creato: quel rito laico, laicissimo, chiamato teatro. Perché alla fine, come mi scrisse pochi anni fa proprio Luca Ronconi in un breve messaggio, “le utopie sono una roba seria”.


Immagine di copertina: ph. Jez Timms da Unsplash