Spazi in cerca di attori/attori in cerca di spazi

Le nostre città sono disseminate di edifici abbandonati, di vuoti urbani, di spazi pubblici che ‘non funzionano’ come tali o che sono altamente conflittuali, di grandi infrastrutture dismesse in cerca d’autore, in cerca di funzioni, in cerca di identità.

Queste spazialità stanno iniziando ad attivare energie, (bi)sogni e, perché no, ambizioni che si sono tramutati in percorsi di progettazione, di attivazione sociale e di risignificazione territoriale di grande rilevanza: ex polveriere militari trasformate in spazi di attivazione di associazioni e imprese sociali, piazze di spaccio di droga diventate centri culturali, di lavoro e di socialità, piccoli mercati rionali di quartieri in difficoltà trasformati in poli di innovazione sociale, vecchi stabilimenti industriali in disuso da decenni resi spazi di aggregazione, ‘fabbriche di cultura’ e centri d’arte. La forza di tutti questi percorsi, pur nella loro estrema varietà territoriale, di attori coinvolti e di storie, è quella di rispondere in modo più o meno consapevole ad alcune grandi questioni della contemporaneità. In primo luogo al crescente senso di spaesamento sociale e politico dovuto alla precarizzazione e frammentazione dei percorsi di vita e dei processi di attribuzione di senso e di significato oltre che alla crisi strutturale dei tradizionali soggetti di intermediazione (es. partiti, sindacati); in secondo luogo al senso di spaesamento territoriale e al conseguente bisogno di ritrovare spazi (e di liberare tempi) vissuti e condivisi (e non solo mercificati) in cui soddisfare la voglia di comunità; in terzo luogo al progressivo ridimensionamento dell’intervento pubblico e delle risorse economiche e alla conseguente necessità di valorizzare l’ambiente costruito e le risorse sociali, identitarie e relazionali dei soggetti e dei luoghi.

Questi processi sono caratterizzati da una serie di (nuove) modalità d’azione che contraddistinguono, più in generale, tutta questa fase della tarda modernità. Tre di queste meritano di essere evidenziate: a) l’affermazione di modelli organizzativi fondati sulla condivisione, sul peer-to-peer, sulla co-creazione e non sul semplice uso da parte degli utenti di uno spazio o di un servizio; b) l’ambizione alla costante attivazione delle competenze dei differenti soggetti/abitanti e delle specificità/vocazioni dei luoghi; quindi la consapevolezza che per rigenerare un luogo non è efficace partire dai problemi ma serve lavorare sul riconoscimento, supporto e connessione delle risorse di un luogo/territorio; c) l’interdisciplinarietà delle professionalità coinvolte (architetti, urbanisti, sociologi, psicologi, facilitatori, progettisti, ecc.) e l’intersettorialità della governance di questi percorsi che vedono soggetti pubblici e privati, individuali e collettivi, economici e no profit collaborare, mediare e, perché no, ogni tanto confliggere tra loro.

Questi processi di soggettivizzazione di spazi e di attori non riguardano necessariamente l’Italia dei capoluoghi o delle grandi città, né tantomeno solo il Nord ma anche l’Italia delle piccole città, l’Italia centrale, l’Italia meridionale (si vedano, solo per fare due esempi, le esperienze di Caos a Terni e di Ex-Fadda a San Vito dei Normanni); questa ‘dispersione territoriale’, una volta di più, ci ricorda la natura contestuale e direi virale del fenomeno soprattutto in un Paese così ricco dal punto di vista storico, identitario e relazionale come il nostro.

Questi percorsi di rigenerazione collaborativa, fortemente sperimentali, sono fragili e in perenne discussione, a causa di quotidiane difficoltà nei modelli organizzativi e gestionali, di finanziamenti sempre estremamente precari e di normative ancora incapaci di riconoscere e tantomeno supportare le parti virtuose di questi processi. Ciononostante, attraverso queste esperienze, si stanno costruendo e attivando servizi di crescente rilevanza che hanno permesso di creare, a seconda dei casi, nuove centralità territoriali in molte città italiane, significativi spazi di socialità, luoghi di welfare collaborativo e di mutualismo, spazi di produzione culturale, luoghi di supporto all’auto-imprenditorialità e allo scambio di conoscenza tra lavoratori della conoscenza e makers, laboratori di educazione/formazione non convenzionale, piccoli segmenti ad elevata ‘sostenibilità ambientale’.

Questi percorsi, però, aprono spesso forti contraddizioni perché si trovano quotidianamente, in maniera piu’ o meno consapevole, di fronte a molteplici sfide etiche, sociali, e politiche (oltre che quelle economiche e organizzative) di grande rilevanza. Alcune di queste meritano di essere particolarmente evidenziate: a) il rapporto pubblico/privato cioè il rischio che la riattivazione dal basso degli attori sociali possa finire per legittimare il ridimensionamento del ruolo pubblico e forse dell’interesse pubblico; b) la relazione con la marginalità e con il conflitto sociale. In una fase in cui la marginalità e’ sempre più equiparata a devianza e criminalità, questi processi di rigenerazione corrono il rischio di produrre semplicemente aumento dei valori immobiliari, espulsione di soggetti con problematiche sociali, in una parola gentrification; c) l’ambivalenza del concetto di comunità che esprime sì il desiderio di trovare risposte condivise a problemi collettivi, ma che allo stesso tempo rappresenta un mito che si concretizza a volte nell’illusione della semplificazione, della coesione, della fine del conflitto: in una parola nel rifiuto della diversità; d) la frammentazione organizzativa e potremmo dire politica di questi percorsi. Si tratta, infatti, di progetti generalmente puntiformi e ancora poco connessi tra loro, e perciò, da un lato, non in grado di ispirare un quadro istituzionale di riferimento e, in secondo luogo, ancor di più incapaci di operare una rottura politica significativa.

Queste quattro grandi sfide non devono però bloccare i processi di attivazione sociale e di rafforzamento del capitale spaziale delle nostre città; non dobbiamo ciò buttare il bambino con l’acqua sporca, magari beandoci della nostra purezza. In questa fase quello che serve è assumere piena consapevolezza di queste sfide e riuscire collettivamente a valorizzare questi processi e a orientarli concretamente verso obiettivi di inclusione e riconoscimento sociale.

Siamo, dunque, in una fase topica in cui appare sempre più’ necessario capire e valutare cosa sta funzionando e cosa no in queste esperienze, cosa sta emergendo nei differenti territori, cosa come sistema Italia e come singoli attori di questo nuovo ecosistema, dovremo provare a rafforzare o abbandonare, anche al fine di individuare e supportare protocolli normativi, formativi e di azione che possano infrastrutturare questi percorsi. È quello che si sta iniziando a fare in diversi contesti (dal progetto Co-City al Master U-Rise che ho il piacere di coordinare), che intorno a questa esigenza stanno costruendo comunità riflessive e sempre più ampie per cercare di supportare l’incontro tra la risignificazione di queste migliaia di spazi in cerca di autore e il riconoscimento concreto e quotidiano delle tante soggettività sociali in cerca di spazio. Si aprono davanti a tutti noi scenari complessi ma anche decisamente stimolanti.


Questo contributo rientra in una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato. I docenti del Master U-RISE Marcello Balbo, Adriano Cancellieri, Ezio Micelli e Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Martina Bacigalupi (The Fund Raising School), Paolo Venturi (AICCON) e Flaviano Zandonai (Euricse) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura. Iscrizioni aperte fino al21 novembre