Come Netflix ci sta insegnando che il cinema non ha più bisogno del cinema
Vivo a Palermo parecchi mesi l’anno e una cosa che ho sempre trovato piuttosto buffa è la perentoria, quanto diffusa, difesa della tradizione culinaria siciliana. Direte, che c’entra? Abbiate solo un poco di pazienza! La difesa della tradizione passa ovviamente attraverso una elencazione di piatti considerati intoccabili e filologicamente impeccabili che, di contro, sono chiaramente ed evidentemente (non fosse altro per la derivazione dei loro ingredienti) il frutto di una ibridazione, di uno scambio e quindi di una rilettura di una tradizione precedente.
Eppure, in qualche modo, quella veste è stata “fermata” e quindi il frutto (squisito, tra l’altro) di una contaminazione viene preservato da qualsiasi forma di ulteriore contaminazione. Un controsenso? Forse nemmeno tanto. E comunque in qualche modo è ciò che capita oggi con il tema della sala cinematografica. Ma permettiamoci di riavvolgere momentaneamente il nastro (non un cinematografico ed elegante flashback ma proprio un riavvolgimento del nastro).
Novembre 2018, il Ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli annuncia un decreto che stabilisce “finestre” obbligatorie per l’uscita dei film in sala prima della distribuzione sulle piattaforme Internet.
Per ora lasciamo lì tutto sul tavolo… Lasciamo decantare questo episodio e torniamo ancora un po’ indietro per posizionarci nella stagione dei grandi festival del cinema, quando a Venezia (settembre 2018) vince Roma di Alfonso Cuaròn, un film prodotto da Netflix. Si scatena un putiferio (a dire il vero piuttosto contenuto, ma si sa: ormai il cinema smuove ben pochi spiriti). Ma riavvolgiamo ancora un poco il nostro ideale nastro per arrivare alla primavera dello stesso anno. Siamo a Cannes e il direttore Thierry Frémaux proclama (con una certa enfasi e anche piuttosto polemicamente) che il festival francese non avrebbe accettato in concorso nessun film prodotto da piattaforme (perché qui il problema non è più solo Netflix ma anche Amazon e altri), in particolare se questi film non avessero fatto la loro comparsa prima in sala.
Si tratta di un’onda che viene da più lontano… Da qualche anno prima, quando i maggiori festival internazionali iniziano a essere invasi da produzioni Amazon e Netflix che, dal canto loro, pensano ovviamente alla loro piattaforma ma anche a qualche forma alternativa di distribuzione. Chi nelle sale indipendenti, chi costruendo addirittura un proprio sistema di sale e quindi un proprio modello distributivo, rinverdendo quel processo già provato dagli studios hollywoodiani all’alba del cinema classico e interrotto forzosamente dall’intervento governativo contrario a ogni qualsivoglia forma di concentrazione industriale.
Dal punto di vista economico stiamo parlando di forze enormi contro modelli sempre più destinati alla marginalità.
Il tema economico sfiora però per poco tempo la discussione… quando una serie di sale e di circuiti così come di distributori internazionali minaccia di impedire il passaggio dei film targati Internet la riposta di questi ultimi – nella maggior parte dei casi – è sconcertante e quasi mortificante: “who cares!”. In fin dei conti loro sono i detentori di un business, gli altri sembrano gli ultimi superstiti di un modello economico che si propone ormai stremato dalle varie battaglie intraprese con la televisione, i canali satellitari, il VHS, il DVD e Blockbuster di fronte al nuovo esercito: lo streaming.
Insomma: dal punto di vista economico stiamo parlando di forze enormi contro modelli sempre più destinati alla marginalità.
L’intervento ministeriale sembra dettato dal tentativo di tutelare le sale in quanto economia, e quindi provare a difendere il fortino della filiera del cinema industriale tradizionale. Tentativo sicuramente meritorio ma probabilmente non di vasto respiro: gli “who cares” di cui sopra prevarranno alla lunga e senza politiche legate al valore culturale della sala tutto ciò si risolverà in un nulla di fatto, o peggio, all’italiana, un nulla aggirabile. E infatti il punto di vista culturale è invece più interessante. Connettendosi a un discorso che nell’area delle teorie del cinema è iniziato fin dagli anni ’60, ci si chiede cosa sia veramente cinema e cosa no. E non ci sono voci univoche evidentemente: ricordiamo Raymond Bellour che, sulla scorta del Godard delle Histoire(s) du cinéma, propone di definire cinema solo l’incontro tra film e la proiezione. Tutto il resto sarà da risistemare, sia a livello critico che teorico.
Eppure un problema sussiste perché gran parte del pubblico riconosce l’oggetto film anche a prescindere dalla sala. Se ne accorge quasi 15 anni fa Gene Yungblood nella sua riflessione pubblicata nel preziosissimo catalogo Future Cinema. The Cinematic Imaginary after Film curato da Jeffery Shaw e Peter Weibel (MIT Press): “noi chiamiamo cinema ogni fenomenologia delle immagini in movimento”. E questo tanto più vale per i film: riconosciamo come film un contenuto normalmente della durata di un’ora e mezza o due ore con una storia, un linguaggio che seppure con alcune modifiche è quello “istituzionalizzato” (come direbbe il Noël Burch de il lucernario dell’infinito, Pratiche) già negli anni ’20. E quanti film vediamo (consumiamo) oggi! E quanto poco cinema… “Il cinema è morto, lunga vita ai film” è il motto che da qualche anno Peter Greenaway porta orgogliosamente in giro e che sembra fotografare perfettamente questa situazione.
I Netflix Bright o Annientamento sono film, e poco conta che siano passati in sala. In fin dei conti la maggior parte dei film, quelli per la sala, proprio quelli, li vediamo comunemente sugli schermi televisivi o del computer. Allora nell’arena di tutti, nel territorio interfacciale che più ci è famigliare come distinguiamo il film dal non-film? La sala! E se non sapessi se è stato in sala o meno? Altri indizi? Più specifici? Ahinoi! non sembrano essercene. Certo si potrebbe affermare che non è certo colpa dei film la barbarie culturale cui stiamo assistendo per cui la maggior parte delle persone sceglie di non vedere i film in sala e anche quelli che scelgono la sala comunque vedono la maggior parte dei film fuori da essa.
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Proviamo però almeno a rilevare che ogni modello di fruizione non è altro che un patto simbolico, un sistema legato a un periodo storico e un dispositivo che ha visto aggregarsi pratiche ed estetiche. Non è perfetto, non è infinito. Non è mai una tradizione, ecco! Perché l’Arancina non può essere cambiata perché è la tradizione… la tradizione per come ce l’ha consegnata l’incontro tra la cucina regionale e il mondo arabo (e quindi la rottura di una tradizione)… è proprio lì che risiede il punto debole di questo discorso: definire “tradizionale” un elemento che è stato la fonte spesso polemicamente istituita di esperienze diverse. Eppure nessuno vedrebbe un film dei Lumière oggi, e tanto meno in sala (tra l’altro compirebbe un misfatto filologico… andrebbe visto forse in un bar). Ma siamo pronti a difendere la tradizione.
Anche se in questo modo si rischia di non fare un gran servizio alla tradizione stessa. E alla sala… il divieto di sentirsi parte di raffinati club cinefili non fa altro che allontanare ancor di più un pubblico che invece sembra essere avido di film, e che probabilmente potrebbe anche essere solleticato da forme di fruizione diverse se solo venisse accompagnato e non rigettato in un limbo proto-populista. Se Netflix d’altronde punta sul cinema indipendente, trova persino il modo di dare visibilità a capolavori del passato e a documentari (notoriamente rigettati dal circuito delle sale), allora potrebbe essere un ottimo partner del cinema con le sue produzioni, con il lavoro culturale e magari con l’alleanza con qualche sala.
La mia non è una difesa di Netflix, ma di modelli che aiutino la produzione di opere originali
Eppure c’è un fronte che sembra spingere verso altre direzioni: un “cinema opera lirica” da assaporare solo dopo una costosa cena elegante lasciando le deprecabili pellicce al guardaroba. No, vi prevengo! La mia non è una difesa di Netflix, ma di modelli che aiutino la produzione di opere originali, in grado di fare emergere maestranze nuove e di raccontare storie. E di trovare pubblici desiderosi di raffinare il proprio gusto e, quindi, di richiedere anche esperienze “diverse”.
Le architetture e le tecnologie della visione stanno modificando il modello dell’esperienza dei film. Lo cambiano innanzitutto offrendo molteplici possibilità: piattaforme, aggregatori, siti, social, download e streaming, smartphone, tablet e smart television. Oggi possiamo vedere in più luoghi e in differenti momenti… vedere, interrompere, registrare. Tutte questo sono possibilità e opportunità, e la sala è – orgogliosamente – una di queste. Sono le politiche miopi rispetto al nuovo panorama radicalmente cambiato che potrebbero fare più danno alla sala.
David Cronenberg a Venezia ha punzecchiato certa cinefilia opponendo a proiezioni maldestre e scomode in sala alcune accurate visioni a casa sua. Ha parlato anche di serialità come di un luogo del racconto che permette all’autore di slegarsi dai canonici limiti di tempo (ancora una volta dettati dalla programmazione in sala). Insomma: la sala non è un oggetto vintage da cui separarsi ma un elemento di un nuovo orizzonte tecnologico e culturale. Un elemento da curare, da sostenere, verso cui muovere sollecitazioni, ma non un fortino da difendere. Il cinema non morirà perché non morirà la sala (e la proiezione) e la sua esperienza, ma i film si gioveranno di una disseminazione, di una espansione e di una aumentazione di possibilità, di schermi e di modalità che segneranno e contraddistingueranno la nostra epoca… Netflix o non Netflix.
Immagine di copertina: ph. Pim Chu da Unsplash