Music is culture?

Il punto interrogativo l’ho aggiunto io, per dare un po’ di suspense all’incipit ma non credo ci siano dubbi.

Sono reduce da un convengo tenutosi nell’ambito dell’Electropark, un festival di musica elettronica ed arti visive che si è tenuto a Genova, all’interno del quale è stata organizzata una tavola rotonda su “Imprenditoria culturale: nuove forme, nuove professioni”, cui ho partecipato insieme a Roberto Rampi ed Irene Manzi (componenti della Commissione Cultura alla Camera), Franco Broccardi (esperto in materia di Economia della Cultura), Dino Lupelli (fondatore di Linecheck Music Meeting), Nicola Zanola (System designer) ed Alessandro Mazzone fondatore del festival.

Le diverse sensibilità presenti al tavolo hanno dato vita ad un confronto interessante, facendo emergere degli spunti di riflessione molto stimolanti sotto diversi punti di vista.

Alle mie spalle campeggiava la scritta “Music is culture” e non a caso una delle questioni emerse nel corso del dibatto riguardava la necessità di definire cosa è “culturale e creativo” e cosa no; ciò non tanto partendo da un approccio astratto o filosofico, ma rispetto alla necessità di tradurre in concreto dei concetti che devono poi trovare concreta collocazione, all’interno di definizioni normative specifiche.

A prescindere infatti dal punto di partenza, il grande tema che si pone è sempre quello delle regole. Ed è anche di regole che si è discusso in quanto diversi provvedimenti normativi in corso di definizione guardano al mondo dell’imprenditoria culturale.

La riforma del Terzo settore (di cui ho già avuto modo di scrivere), il provvedimento sulle imprese culturali e creative, la revisione del codice dello spettacolo, sono tutte tessere di un mosaico che potrebbe consentire alle imprese culturali di acquisire una nuova identità o quanto meno fornire degli spunti, ai soggetti attivi in questo ambito, per ritrovarsi all’interno di un unico “sistema”.

Ciò richiede ovviamente uno sforzo comune, che guardi oltre le specificità di ciascuno. Spesso si pone attenzione ad aspetti particolari, guardando ad esempio alla fiscalità o alle misure agevolative, perdendo magari di vista le vere ragioni che dovrebbero orientare una scelta. Solo per fare un esempio è vero che il testo del provvedimento sulle imprese culturali e creative non introduce vantaggi particolari, ma credo che sia importante provare ragionare in una logica di “appartenenza” e non solo di mera “convenienza”. Le norme, infatti, rappresentano una tappa e non l’approdo di un percorso più ampio ed articolato.

Al centro del festival quest’anno c’era il tema della migrazione e ripensando ai diversi spunti emersi nel corso del dibattito mi viene in mente il passaggio di un recente romanzo di Mohsin Hamid dal titolo “Exit West”, che affronta in maniera molto originale questa tematica, dove si dice che “tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo”; forse questo processo è inevitabile anche per le imprese culturali che potrebbero trovarsi all’interno di un contesto fatto di regole e riferimenti nuovi, in grado di conferirgli anche una diversa riconoscibilità.

Sia chiaro, nessuno dei provvedimenti citati impone degli obblighi, anche se apre delle possibilità che in maniera trasversale andranno ad interessare ambiti e settori diversi; questo a prescindere dalla provenienza e dalle caratteristiche dei diversi modelli organizzativi. Gli strumenti non mancano e possono essere combinati diversamente.

“Non è cosa, ma è come”, cantava Niccolò Fabi, tanto per rimanere in tema. Ecco credo il punto nevralgico ancora una volta credo sia questo: spostare l’attenzione sull’attività e sull’impatto che si è grado di produrre mentre si fa impresa, a prescindere dalla struttura del contenitore (associazione, imprese sociale, cooperativa, etc.) che si è scelto, cosi da fare in modo che questa “industria della felicità” (come l’ha definita in maniera molto efficace Nicola Zanola) diventi davvero sostenibile ed innovativa.