Partecipazione e produzione culturale: la retorica della creatività

Nel Regno Unito, il New Labour (1997-2010) ha dispiegato una retorica quasi uguale a quella dei professionisti dell’arte impegnata socialmente per giustificare la spesa pubblica impiegata nelle arti. Spinto dall’ansia di legittimazione, la questione su cui si interrogò, nel momento in cui assunse il governo nel 1997, fu: cosa possono fare le arti per la società? Le risposte comprendevano la crescita dell’impiego, la riduzione della criminalità, l’incremento delle ambizioni – tutto tranne la sperimentazione e la ricerca artistica come valori in sé e per sé.

La produzione e la ricezione delle arti furono, dunque, rimodellate secondo una logica politica in cui i dati legati al gradimento del pubblico e le statistiche di marketing divennero essenziali per assicurare i finanziamenti pubblici. La definizione chiave lanciata dal New Labour fu “esclusione sociale”: se le persone si allontanano dalla scuola e dalla formazione e, di conseguenza, dal mercato del lavoro, ci sono più probabilità che esse pongano problemi al sistema dello stato sociale e alla società tutta. Il New Labour, quindi, incoraggiò le arti a essere socialmente inclusive. Nonostante la benevola accoglienza ricevuta da questo programma, esso fu oggetto di critiche da sinistra, principalmente perché cercava di nascondere la disuguaglianza sociale, presentandola come una disuguaglianza di facciata invece che strutturale.

Pubblichiamo un estratto dal saggio Inferni artificiali (Sossella)

 

Quest’ultima rappresenta il primo motivo di divisione all’interno della società, tra una maggioranza inclusa e una minoranza esclusa (precedentemente nota come “classe operaia”). La soluzione suggerita dal discorso sull’esclusione sociale è semplicemente quella di raggiungere l’obiettivo di superare il confine tra escluso e incluso, di permettere alle persone di accedere al Santo Graal del consumismo autosufficiente e di essere indipendenti da qualsiasi necessità di stato sociale. Inoltre, l’esclusione sociale è raramente percepita come un corollario delle politiche neo-liberali, piuttosto è interpretata come la conseguenza di un certo numero di fenomeni marginali (e individuali), come l’assunzione di droga, il crimine, i fallimenti familiari e le gravidanze in età adolescenziale.

Partecipazione è diventata un’importante parola alla moda nel discorso sull’inclusione sociale, ma a differenza della funzione che ha nell’arte contemporanea (in cui indica autorealizzazione e azione collettiva), per il New Labour essa si riferiva in realtà all’eliminazione degli individui di disturbo. Essere inclusi nella società e prendervi parte significa conformarsi all’impiego a tempo pieno, avere un reddito disponibile ed essere autosufficienti.

Incorporato nella politica culturale del New Labour, il discorso sull’inclusione sociale poggiò abbondantemente su una relazione di François Matarasso che provava l’impatto sociale positivo dell’arte partecipativa. Matarasso illustra cinquanta vantaggi della pratica artistica socialmente impegnata, dando “prova” del fatto che essa riduce l’isolamento aiutando le persone a fare amicizia, a sviluppare reti di comunità e socievolezza, aiuta aggressori e vittime in seguito a crimini, contribuisce all’impiego, incoraggia le persone ad accettare il rischio con positività e aiuta a trasformare l’immagine degli enti pubblici. L’ultima di queste cose è forse la più insidiosa: la partecipazione sociale è vista positivamente perché crea cittadini remissivi che rispettano l’autorità e accettano il “rischio” e la responsabilità di prendersi cura di se stessi a fronte dei ridotti servizi pubblici. Come ha messo in evidenza la teorica della cultura Paola Merli, nessuno di questi risultati cambierà o addirittura farà crescere la consapevolezza delle condizioni strutturali dell’esistenza quotidiana delle persone, ma le aiuterà solo ad accettarle.

Il programma di inclusione sociale, quindi, più che un modo per riparare il legame sociale, è una missione per far sì che tutti i membri della società si amministrino autonomamente, siano consumatori a pieno titolo che non fanno affidamento sullo stato sociale e possano cavarsela in un mondo deregolamentato e privatizzato. Come tale, l’idea neo-liberale di comunità non tenta di costruire relazioni sociali, ma piuttosto di sgretolarle; come ha notato il sociologo Ulrich Beck, i problemi sociali sono sentiti come individuali più che come collettivi e ci sentiamo obbligati a cercare “soluzioni biografiche delle contraddizioni sistemiche”.

In questa logica, la partecipazione alla società è una mera partecipazione al dovere di essere individualmente responsabili per ciò che, nel passato, era generale premura dello Stato. Da quando nel maggio del 2010 è salita al potere la coalizione conservatrice-liberal democratica, questa devoluzione di responsabilità ha avuto un’accelerazione: la “Big Society” di David Cameron, verosimilmente una forma di potere popolare in cui il pubblico può contestare il modo in cui vengono gestiti servizi come biblioteche, scuole, polizia e trasporti, di fatto denota un modello di governo ispirato al laissez-faire travestito da incoraggiamento verso “una nuova cultura di volontariato, filantropia e azione sociale”.

Si tratta di una maschera sottilmente opportunista: richiedere volontari non stipendiati che risollevino ciò che il governo ha tagliato, privatizzando al contempo quei servizi che assicurano l’accesso egualitario all’istruzione, allo stato sociale e alla cultura.

Il Regno Unito non è il solo a mostrare questa tendenza. L’Europa del nord ha vissuto una trasformazione rispetto al dibattito degli anni Sessanta sulla partecipazione, sulla creatività e sulla comunità; questi termini non hanno piú una forza sovversiva e antiautoritaria, ma sono diventati il caposaldo della politica economica post-industriale. Dagli anni Novanta al crollo del 2008, “creatività” è stata una delle parole maggiormente di moda nella “new economy”, che ha rimpiazzato l’industria pesante e la produzione di merci.

Nel 2005 in Olanda il Ministero dell’istruzione, della cultura e della scienza e il Ministero dell’economia presentarono al governo della coalizione di destra il documento programmatico La nostra capacità creativa (Ons Creatieve Vermogen). Lo scopo di tale documento era quello di “intensificare il potenziale economico della cultura e della creatività incentivando le energie creative del commercio e dell’industria olandesi” per mezzo di un’operazione su due fronti: primo, dare alla comunità degli affari un maggiore accesso alle possibilità offerte dal settore creativo “generando un’abbondanza di idee per lo sviluppo e l’utilizzo di nuove tecnologie e prodotti”, e, secondo, incoraggiare il settore culturale ad avere una maggiore consapevolezza del suo potenziale di mercato.19 In questo stesso documento, possiamo notare che gli autori non distinguono tra “industria creativa”, “industria culturale”, “arte” e “intrattenimento”.

Il risultato di tale elisione non è una confusione produttiva e una complicazione dei vari termini (come potremmo trovare in certe pratiche artistiche interdisciplinari), ma piuttosto la riduzione di ogni cosa a una questione finanziaria: “il fatto che certe persone attribuiscano un merito artistico maggiore a certi settori è completamente irrilevante quando lo si guarda da una prospettiva di utilizzo economico”. Un anno dopo, nel 2006, il governo olandese inaugurò un programma di “cultura ed economia” di 15 milioni di euro, capitalizzando sulla creatività come specifica merce d’esportazione olandese, forzando la logica del De Stijl verso la sua involontaria espansione come opportunità imprenditoriale. Nello stesso tempo, l’amministrazione comunale di Amsterdam iniziò un aggressivo rinnovamento d’immagine della capitale olandese come “città creativa”: “La creatività sarà il focus centrale”, si affermava, poiché “la creatività è il motore che dà alla città magnetismo e dinamismo”

Uno dei modelli per questa iniziativa olandese fu il New Labour, che aveva enfatizzato il ruolo della creatività e della cultura nel commercio e la crescita dell’“economia della conoscenza”. In questa rientravano i musei come fonte di rigenerazione urbana, ma anche investimenti nelle “industrie creative” come alternativa alla produzione tradizionale. Il New Labour si basava su un approccio apertamente strumentale alla politica culturale del governo conservatore: nel 2001 il Green Paper, nel presentare la missione del governo di “liberare il potenziale creativo degli individui”, si apre con le parole “Ognuno è creativo”.

Attraverso la retorica sulla creatività, l’attività elitaria dell’arte è democratizzata, sebbene oggi questo porti agli affari più che a Beuys

L’obiettivo di dare sfogo alla creatività, in ogni caso, non era concepito per accrescere la felicità sociale, la realizzazione di un autentico potenziale umano o per immaginare alternative utopiche, bensì per produrre, con le parole della sociologa Angela McRobbie, “una generazione futura di lavoratori creativi di diversa provenienza sociale, pieni di idee e le cui abilità non solo richiedono di essere incanalate nei campi dell’arte e della cultura, ma saranno utili anche per il mondo degli affari”.

In breve, l’emergere di un settore creativo e mobile serve a due propositi: ridurre al minimo la dipendenza dallo stato sociale e nello stesso tempo sollevare le aziende dal peso della responsabilità di una forza lavoro stabile. Perciò, il New Labour ha considerato importante lo sviluppo della creatività nelle scuole – non perché tutti dovessero essere degli artisti (come dichiarava Joseph Beuys), ma perché la popolazione è sempre più chiamata a credere che l’individualizzazione sia associata alla creatività: avere capacità imprenditoriali, accogliere il rischio, prendersi cura dei propri interessi, creare marchi propri, essere pronti a sfruttare se stessi.

Per citare ancora una volta McRobbie: “la risposta a tutti i problemi che toccano un largo spettro di popolazione – per esempio, quello delle madri che sono a casa e non sono ancora pronte a un pieno reintegro nel lavoro – per il New Labour è la “libera professione”, l’avvio di un’attività commerciale propria, la libertà di crearsi il proprio stesso posto di lavoro. Vivere e lavorare come un artista”. Il sociologo Andrew Ross esprime un’opinione simile quando sostiene che l’artista è diventato il modello di riferimento per ciò che egli chiama la forza lavoro “senza colletto”: gli artisti forniscono un modello utile per il lavoro precario, poiché hanno una mentalità lavorativa basata sulla flessibilità (lavorare a progetti piuttosto che dalle nove alle diciassette) e focalizzata sull’idea del lavoro sacrificale (cioè essere predisposti ad accettare meno soldi in cambio di una relativa libertà).

Ciò che emerge qui è una confusione problematica tra arte e creatività: due termini che si sovrappongono, che non solo hanno connotazioni demografiche differenti, ma anche retoriche distinte riguardanti la loro complessità, strumentalizzazione e accessibilità. Attraverso la retorica sulla creatività, l’attività elitaria dell’arte è democratizzata, sebbene oggi questo porti agli affari più che a Beuys. La retorica de-gerarchizzante degli artisti, i cui progetti tentano di agevolare la creatività, finisce per suonare identica alla politica culturale del governo che punta verso il doppio mantra dell’inclusione sociale e delle città creative. Tuttavia, la pratica artistica possiede un elemento di negazione critica e una capacità di sostenere la contraddizione che non possono conciliarsi con gli imperativi di un’economia basata sui risultati quantitativi.

Gli artisti e le opere d’arte possono operare in uno spazio di antagonismo o di rifiuto rispetto alla società, e la loro è una tensione che l’ideologia della creatività riduce a un contesto omologato e strumentalizza ai fini di un più efficace orientamento al profitto.

 

Immagine di copertina di San Fermin Pamplona – Navarra da Unsplash