Biennale di Venezia: cultura e futura umanità

Viva Arte Viva, la 57 edizione della mostra internazionale d’arte della Biennale di Venezia, ha aperto al pubblico il 13 Maggio 2017, dopo i consueti tre giorni di vernissage per professionisti, stampa, addetti ai lavori e frequentatori del mondo dell’arte.

Il giro di media e stampa specializzata pre-biennale per addetti ai lavori ha iniziato già a lavorare da prima dell’inaugurazione.

Il direttore artistico, la francese Christine Macel, sarebbe secondo i media italiani “giovane” (nata nel 1969, a quasi cinquant’anni in questo paese si è giovani se si ricoprono posizioni direttive). E in più non avrebbe scelto abbastanza artisti italiani per la sua mostra.

Verrebbe voglia di costringere i giornalisti e fare dei corsi di aggiornamento su politiche culturali (aperti anche ai burocrati dei ministeri dei Beni Culturali e dell’Università più antiquati del continente europeo): gli artisti italiani sarebbero presenti anche nelle manifestazioni internazionali se si investisse nel sostegno alla produzione e circolazione di cultura contemporanea.

Perché alle biennali internazionali (Venezia in primis) ci si arriva se i direttori artistici vedono il tuo lavoro in giro per il mondo in mostre, altre biennali, festival ecc. Indovinate perché tanti artisti italiani hanno la residenza in Olanda o Belgio? Perché così dopo qualche anno di attività hanno accesso ai sostegni istituzionali per produzione e circolazione. E iniziano a girare in circuiti in cui le Christine Macel di turno avrebbero modo di vederne il lavoro.

La mostra di Damien Hirst inaugurata qualche settimana fa a Palazzo Grassi ed a Punta della Dogana (Treasures from the Wreck of the Unbelievable, aperta il 9 Aprile 2017), definita senza mezzi termini “bellissima” o “bruttissima” dai commentatori del settore, ha invece riscaldato le aspettative biennaline degli addetti ai lavori, insieme ai consueti lotti numerici: quanti artisti? Quanti eventi collaterali? Quanti padiglioni nazionali? Quante nazioni alla prima apparizione a Venezia? Quanti padiglioni “nationless”? E soprattutto: quante shoppers dei padiglioni riusciremo ad accaparrarci? E quale padiglione ha fatto la borsa più bella? E a quante feste riusciremo ad infiltrarci?

Carichi di tali questioni esistenziali profonde e sentimenti misti, ci siamo avvicinati a Venezia anche con la scottatura post Documenta di Atene ancora ben calda. La progettualità “politica” di uno degli eventi artistici periodici internazionali più influenti del pianeta, giocando sulle recenti vicende economiche del paese in collasso e della durezza dell’Unione Europea capitanata da una inflessibile Germania, proponeva un gesto forte, sulla carta, traslocare ad Atene, “Imparare da Atene”, come recitava il titolo “Learning from Athens”.

Ma il contrasto tra la super produzione dell’evento e la povertà evidente della città, la sua incapacità di innestarsi veramente nel tessuto culturale locale presentandosi piuttosto come una astronave aliena pronta all’occupazione militarizzata, avevano più che altro prodotto l’effetto di evidenziare l’incapacità di eventi come questi di avere veramente un impatto sociale (volendo prendere per buone le intenzioni artistiche della mostra e non pensare a una deliberata attività di gentrificazione volta alla “riquaificazione” della città a biechi fini immobiliari).

E quindi Viva Arte Viva, con questo titolo leggero e la promessa di occuparsi esclusivamente di opere d’arte, e di farci vivere delle esperienze legate esclusivamente all’arte, ha aperto illudendoci di avere bisogno di una esperienza estetica spensierata e scevra da qualsiasi narrazione.

Perché poi pretendere che una operazione finanziaria globale come l’arte contemporanea possa fare intravedere delle soluzioni visionarie ai problemi del nostro pianeta? Dopo la Biennale Arte 2015 curata da un direttore artistico famoso per la sua retorica engagé come Enwezor e dopo l’amarezza di Learning from Athens, la disillusione delle grandi narrazioni sembra spingerci naturalmente a rivalutare la leggerezza, l’importanza della freschezza di una esperienza non mediata dalle nostre configurazioni mentali.

Sulla carta inoltre, il lavoro della curatrice senior del Pompidou di Parigi è parso un onesto lavoro di ricerca che qualsiasi curatore dovrebbe fare: molti gli artisti giovani, spesso sconosciuti, e spesso scovati in mostre o biennali meno battute, come quelle di Sharjah o Marrakesh (è il caso di nomi come il marocchino Younes Rahmoun o l’Arabo Hassan Sharif), insieme ad artisti storici (come Rasheed Araeen o Maria Lai).

Girare per le sale dell’Arsenale ed il Padiglione centrale dei giardini ha suscitato però impazienza, fastidio, se non proprio rabbia. Difficile leggere la mostra, trovare un significato che unisca le opere e che ci permetta di avere delle linee di senso generali alle quali appigliarsi. Certo, il senso è stato programmaticamente eliminato da un testo curatoriale che propone invece pura esperienza, come detto sopra.

Ma vagando per gli spazi dell’arsenale troppo pieni, troppo carichi (ed anche, purtroppo, davvero organizzati in maniera troppo decorativa), le opere si perdono, insieme alla relazione che dovrebbe mettersi in atto tra queste e noi spettatori. E forse quello che cerca un osservatore è invece una narrazione, che permetta di rintracciare delle linee generali, una lettura del mondo, una maniera di osservare i fenomeni e trarne degli insegnamenti. Tutto, anche lavori storicamente densi ed emozionanti come la documentazione del lavoro fatto ad Ulassai da Maria Lai o “The Circle of Fires” del cileno Juan Downey sembravano parte di una fiera di cose inutili da sorvolare distrattamente.

Ma la Biennale non è solo la mostra del direttore artistico, ma anche l’ecosistema di padiglioni nazionali che, dentro ai Giardini, nell’Arsenale ed anche in giro per la città, pullulano e di anno in anno aumentano in maniera esponenziale, rendendo sempre più difficile la visita. Addetti ai lavori e spettatori sono costretti a piegarsi al diktat dell’espansione: un Arsenale sempre più grande, e sempre più riempito di mostre e padiglioni; aperture ed esposizioni in chiese, scuole, ex edifici industriali, palazzi nobiliari. Bisogna correre, cercando di assorbire il più possibile, di registrare dati ed emozioni, di rimanere in piedi, constatando di volta in volta l’impossibilità di avere una esperienza di tutto.

E in questo senso la Biennale di Venezia fa anche ragionare sui meccanismi della cultura e sulla sua funzione nella società, non solo quella globale, ma nel caso di Venezia meravigliosa ed assaltata da turisti e nuovi padroni ricchi, anche degli abitanti della città.

È vero che anche grazie alla Biennale (di Arte, Architettura, Danza, Musica e Tatro) ed al Festival del Cinema, oltre che alle istituzioni come L’Accademia, lo IUAV e l’Università Ca’ Foscari, la città è riuscita a sopravvivere al collasso economico dal Secondo Dopoguerra, diventando di fatto uno spazio internazionale e di passaggio per studenti, professori, studiosi, artisti e professionisti della cultura di tutto il mondo.

Oltre che essere, naturalmente, una meta turistica che attrae ogni anno i milioni di visitatori. Ma è anche vero che il turismo di massa snatura la vita della città e la sta rendendo di anno in anno meno vivibile e meno vissuta: lo svuotamento di Venezia è un fatto. E viene da chiedersi in cosa, il turismo culturale dei grandi eventi come la Biennale che concentra in pochi giorni professionisti della cultura da tutto il mondo, sia diverso da quello dei gruppi di turisti che si aggirano come zombies nelle calli più battute della città, almeno per gli abitanti di Venezia.

Certo, ci vestiamo forse un po’ meglio, parliamo parecchie lingue, sappiamo analizzare cinicamente le vetrine kitsch delle gallerie commerciali e dei negozi di grandi firme vicini a San Marco, ma ci aggiriamo ugualmente come alieni che non hanno alcuna relazione con lo spazio urbano che ci circonda e con i suoi abitanti.

E quest’ultima è una questione rilevante, soprattutto se leggiamo – nonostante il disimpegno programmatico della Macel – l’arte contemporanea sempre più come spazio di ricerca e di costruzione di immaginari sociali e di modalità di vita quotidiana.

Invitato nella mostra principale, Olafur Eliasson fa costruire a studenti e migranti delle lampade. Il suo laboratorio sta nell’edificio chiamato “Padiglione Italia”, al centro dei Giardini della Biennale, ogni lampada viene venduta a un prezzo simbolicamente alto (250 euro) che verrà devoluto a Ong internazionali. Mark Bradford, per il padiglione degli Stati Uniti, lavora con gli i prigionieri di un carcere della città e finanzia un negozio dei loro prodotti.

E mentre l’informazione generalista sottolinea come questa Biennale sia “sui migranti” e come l’arte sia “politica”, io mi chiedo se questa spettacolarizzazione abbia davvero un impatto. Oltre, naturalmente, ad alzare la valutazione degli artisti presenti nei padiglioni, nell’esposizione principale e negli eventi collaterali della Biennale.

E mi chiedo anche se sia sostenibile politicamente e culturalmente la Biennale stessa. Se abbia un impatto che vada al di là del numero di turisti culturali che arrivano a Venezia per vederla e le quotazioni degli artisti. Dalla sua nascita, nel 1893, la struttura della Biennale ricordava quella delle esposizioni universali, che presentavano secondo una visione eurocentrica la produzione industriale e culturale mondiale.

E se a Parigi si mostrava la Tour Eiffel ed i miracoli dell’ingegneria, a Venezia si mostrava l’arte. Dal 1907 si decide l’organizzazione dei Padiglioni stranieri. Il principio delle rappresentazioni culturali (che erano tutte europee all’inizio che solo nei decenni successivi aprono anche a paesi come l’Egitto ed il Brasile o il Venezuela) è rimasta immutata fino ad oggi, anche se il sistema dell’arte è globalizzato come la finanza e collezionisti e gallerie guardano poco alla nazionalità, a meno che questa serva a commercializzare narrazioni “politiche” sugli artisti (l’artista cubano contro Castro o l’artista cinese che urla libertà).

Infatti, il numero dei paesi presenti con un padiglione nazionale è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni perché agenti culturali e governi di paesi emergenti preferiscono essere sul tavolo internazionale, invece di contestare l’impostazione di questa organizzazione che è l’emanazione della seconda rivoluzione industriale europea e di una organizzazione coloniale ed eurocentrica del mondo. La stessa Cuba, che ha inventato la Biennale de L’Avana nel 1984 proprio per contestare il modello Venezia e smascherare il meccanismo eurocentrico della narrazione della storia dell’arte, ha il suo padiglione da qualche edizione.

Cui prodest? La vittoria dell’Angola come migliore Padiglione Nazionale nel 2013, anno del suo debutto veneziano, ha in un certo senso aperto una strada. Prodest a quanti vogliono entrare nel mondo dell’arte come “curatori” ed artisti ed essere immediatamente proiettati sotto i riflettori internazionali. E prodest al mercato veneziano di affitto di spazi e servizi. E quindi tra soldi pubblici e sponsors privati, anche Costa D’Avorio, Zimbabwe, e da quest’anno la Nigeria, hanno il loro padiglione.

Che significa sostanzialmente affittare un palazzo privato a Venezia per sei mesi (operazione che può costare anche diverse migliaia di euro); pagare tutte le spese di produzione, viaggio, guardiania, comunicazione, curatoria; finanziare un bel festone con fiumi di alcohol, cena VIP e dj; e comprare naturalmente il logo della Biennale per venti mila euro. Questi fondi, insieme a una lettera firmata da un ufficio di qualche ministero di un paese qualsiasi, sono le conditio sine qua non per essere a Venezia.

E così capita spesso (e il caso del Padiglione del Kenya del 2013 e 2015 ne sono un esempio) che un imprenditore edile italiano che conosce il meccanismo della Biennale e vive sulla costa del Kenya da decine di anni, riesca a fare un padiglione nazionale del Kenya pieno di artisti cinesi e totalmente privo di qualsiasi ricerca decente sul territorio e relazione con gli artisti del paese.

Risultato: scandalo internazionale, la comunità artistica del Kenya ed africana in generale che si indigna, il governo che scrive una lettera dicendo di essere stato truffato, un giro di soldi comunque cospicuo che ha girato tra l’economia locale e quella di chi ha organizzato la farsa, con il bollino della Biennale.

Il Diaspora Pavilion o il Research Pavilion che quest’anno vedono la luce, sono un tentativo di ridefinire i limiti della visione nazionale dell’arte e del sistema Biennale. Ma portano questo statement a Venezia e non altrove. Segno che in qualsiasi modo, a quasi 125 anni dalla sua istituzione la Biennale di Venezia, criticata e non, è sempre al centro di speculazioni, interessi e tentativi di discussione e ridefinizione delle politiche culturali.