Non si salva il cinema con lo streaming, serve progettazione culturale e anche un po’ di utopia
Si registra di questi giorni un susseguirsi di progetti e di iniziative riguardanti il cinema che prova a superare il momento di emergenza. Quale fosse la situazione ce lo ha già detto, in un puntuale articolo su questo sito, Roy Menarini che fotografava bene quanto stava avvenendo, sia a livello di produzione che di distribuzione, sale e festival.
Due settimane fa, invece, la rivista “Film TV” ha pubblicato uno speciale davvero dettagliato in cui si sono potute sentire le voci di vari operatori. La situazione è davvero emergenziale e soprattutto si è abbattuta sul settore improvvisamente e con poche garanzie riguardanti il prossimo futuro.
E così tra timide aperture e le speranze riposte nell’autunno, la risposta sembra essere piuttosto univoca: streaming. Ecco, però, streaming non significa un po’ nulla… streaming… Quale? Come? Su quale piattaforma? Con quale idea di cinema? Secondo quali modalità? Con quale ingegnerizzazione? Verso quale pubblico? Prevedendo quale tipo di fruizione? Domande spesso inevase e rimandate a un “vedremo” che non promette niente di buono.
Lo streaming non può essere lo strumento per tamponare aspettando una normalità a venire
Il punto è che lo streaming non può essere lo strumento per tamponare aspettando una normalità a venire (dopo che, tra l’altro, è stato trattato come nemico del cinema vero). Senza un’accurata progettazione culturale nei mondi (troppo spesso sconosciuti) del digitale, si rischia di produrre male, e soprattutto di perdere l’occasione di una vera rivoluzione nel settore che sia in grado di porre le basi anche per un rilancio.
Anche perché – diciamocelo chiaramente – non è che prima dell’emergenza non ci fosse crisi, e così, in una dialettica perversa in cui emergenza rincorre crisi, si rischia solo di rinviare il momento di un crollo generalizzato.
Streaming rischia di essere la classica parola vuota che cela, spesso, una certa insipienza e una difficoltà progettuale (prova ne è che nessuno del settore ha recapitato al ministero di competenza la richiesta di un patto infrastrutturale sulla rete, presupponendo così di fondare questa nuova stagione emergenziale su una differenza di classe basata sul digital divide).
E non voglio nemmeno citare l’idea del drive-in (che fortunatamente sembra essere accantonata): in un paese che sta soffrendo una delle più gravi crisi di intossicazione dell’aria un bel ritorno all’automobile è proprio quello che ci mancava. Ma ritorniamo allo streaming… siamo sicuri che dopo mesi di telelavoro e telescuola abbiamo ancora le forze e le pupille per stare davanti a uno schermo casalingo a vedere film? Probabilmente si… e gli oculisti ringraziano. Ma anche gli psichiatri, dato che è ormai certificato il nesso tra ansie, nausee e veri e propri attacchi di panico legati a questo imponente uso. Ma tant’è!
Anche negli interventi di direttori di festival o di esercenti ciò che ricorre maggiormente è un senso di frustrazione misto a speranza. Eppure un operatore culturale anche quello dovrebbe fare, essere aggiornato, guardare, interrogarsi sullo statuto del cinema. Anche perché – come si diceva – non che prima si navigasse in buone acque… ma al di là di qualche sterile dibattito su film di Netflix si e film di Netflix no che ha investito, per esempio, il festival di Cannes… poco o nulla. Ora tutti a correre verso… lo streaming. Niente riflessione sulle piattaforme, sulle tecnologie.
Andrebbe posta la questione tecnologica assieme a quella culturale
Andrebbe posta la questione tecnologica assieme a quella culturale. Anzi le due sono di per se stesse legate inesorabilmente. Non si può davvero pensare a una mera funzione strumentale della tecnologia. In molti si stanno accorgendo di come il digitale sia in grado di strutturare un legame solido tra archivi, fondi ed educational.
Si può immaginare una macchina in grado di dialogare con le scuole, di sfruttare le sue piattaforme per inaugurare una nuova fase di rifunzionalizzazione degli archivi, per pensare megari anche alla didattica a distanza, alla digitalizzazione e la archiviazione (anche qui, si fa presto a dire streaming live e registrato ma poi come lo si archivia, dove lo si cataloga, con quali strategie secondo quali norme).
Per ricollegarsi al territorio in maniera nuova, ponendo in essere la questione del sistema culturale. Partendo da una digitalizzazione avveduta si può connettere luoghi e tempi diversi per immettere il cinema in un nuovo discorso culturale.
Bisogna avere una visione e poi le capacità di fare network invocando un nuovo patto culturale tra musei, biblioteche, scuole, università, spazi pubblici, beni culturali. Solo così si difende oltre che il valore culturale di questa produzione anche il lavoro di chi opera nel settore, rilanciandolo, non provando a bloccare le falle. La giusta visione può coniugare la giusta riflessione sul cinema come industria, sulla tecnologia e sul cinema come statuto.
Vent’anni fa l’avvento della prima vera ondata digitale ha generato il dibattito sul tema della “morte del cinema” con interventi interessanti, come quelli di Peter Greenaway che ne sanciva la fine celebrando invece la nuova alba dei film.
Di contro Raymond Bellour tagliava corto affermando che il cinema è solo la proiezione in sala! Oggi la si può porre la questione? Stiamo affidando temporaneamente alla “morte del cinema” la sua sopravvivenza? Io non lo penso, però sarebbe bello che si generasse un dibattito, una sincera attenzione critica (che è poi quello che musei e festival dovrebbero fare). Magari per organizzare provocatoriamente un festival a porte chiuse che salvaguardasse lo statuto del cinema. Utopia? Certo!
Un festival a porte chiuse che salvaguardasse lo statuto del cinema. Utopia? Certo!
L’altra strada sarebbe invece adottare una progettualità riferita alla mancanza della sala, alle sue opportunità e alle possibilità tecnologiche che certo non si riassumono semplicemente nello streaming. Nessuno può estrarre magicamente le risposte dal cilindro ma certo sarebbe bello avviare un dibattito, una riflessione, sarebbe vitale pensare ad alcune opzioni. Magari prendendo esempio da chi come il festival SouthbySouthWest da anni mette insieme informatici e sviluppatori di game, artisti di digital art e registi creando così un momento di riflessione e di scambio davvero vivificante e progettuale. Un’operazione che fanno anche il Sundance e il Tribeca.
Ma la stessa storia del cinema ci ha regalato importanti riflessioni e pratiche legate a una diversa prospettiva. E non si tratta solo del cinema d’avanguardia e sperimentale come ci ricordava Bruno Di Marino in un pezzo di qualche giorno fa. Mi viene anche in mente il pensiero di RobertoRossellini per un cinema televisivo ed educativo (e noto che in queste settimane da molte parti si invoca un nuovo patto tra area dello spettacolo e della cultura e area formativa ed educazionale).
L’Expanded Cinema teorizzato da Gene Youngblood o il Future Cinema di Jeffrey Shaw e Peter Weibel (ma la lista potrebbe comprendere le riflessioni “futurologiche” di René Berjavel o Alvin Toffler). Ma anche l’utopia del cinema elettronico che ha animato il dibattito tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 e che ha potuto avvalersi di interessanti questioni poste da registi quali Francis Ford Coppola e Michelangelo Antonioni.
Un altro percorso ancora potrebbe essere quello di organizzare dei tavoli di lavoro con chi, per sua stessa natura, pensa al digitale, sviluppa, crea, realizza app e piattaforme… penso all’industria del gaming che tra l’altro dedica parecchio spazio alla questione della narrazione. È un’industria presente sul territorio, anche piuttosto sviluppata, e può contare addirittura su un’associazione di categoria (IIDEA, ex AESVI).
Organizzare dei tavoli di lavoro con chi pensa al digitale… penso all’industria del gaming
Non mi pare che siano stati avviati tavoli di lavoro con loro, eppure avrebbero parecchio da dire nell’ordine anche della creazione di ambienti virtuali, sale avatar da funzionalizzare in una chiave diversa. Saprebbero anche indirizzare verso l’uso della Realtà Virtuale che potrebbe, in parte, rivitalizzare la visione cinematografica offrendo anche la condivisione (multiplayer) e l’immersione al buio tipiche della sala e che invece nello streaming sarebbero irrimediabilmente perse (molti operatori culturali stanno cominciando a rivolgersi a Twitch la web TV dei gameplayer per la sua funzionalità… perché non sperimentare qualcosa in quella direzione?).
Ci sono anche piattaforme italiane che forse sarebbe interessate a ospitare progettualità in questo senso, penso a VR Stories di PlayStation Italia e Rai Cinema VR. Ma ci sono anche parecchie aziende che si occupano di Realtà Virtuale, Aumentata e Mista sul territorio italiano che in questo momento stanno cercando nuove idee e nuovi territori… qualcuno le ha sentite? È stato realizzato un collegamento? Certo non gli si può andare a chiedere di fare lo streaming…
Perché pensare allo streaming come un mezzo ponte per ovviare alla mancanza della sala non funziona. Streaming significa accedere a un sistema diverso e a una serie di opzioni che presuppongono, per esempio, una comunicazione differente e diverse forme di convergenza. Non significa entrare in un sistema che ci ospita per qualche tempo e finita lì. Le cose non stanno proprio così: si entra in un territorio (che non è neutro) con pubblici, regole, composizioni diverse. Che si avvale di caratteri diversi e che quindi può essere sfruttato al meglio solo assecondando una visione programmatica.
L’esempio migliore in questa direzione è stata l’idea di legare le sale alle proiezioni su una piattaforma ormai certificata come Mymovies. Progetto ottimo che si smarca dall’idea un po’ qualunquista di dire semplicemente “streaming”. Streaming sì, ma con idee e una prospettiva, legandosi a un progetto di virtualizzazione della sala che, a dire il vero, Mymovies porta avanti già da un po’ e che non significa solo creare una sala virtuale ma, in questo caso, anche collegare la rete delle sale alla possibilità di essere ad accesso virtuale.
Mymovies sta accompagnando il cinema da anni lavorando anche sulle proiezioni on-line sostenute, però, da una non comune attenzione al cinema d’autore e indipendente e da un apparato critico in grado di rivitalizzare anche le sale e i festival. E la stessa cosa si può dire di una rivista come “Film TV”. In entrambi i casi abbiamo una visione che, pur rimanendo cinefila, è stata in grado di dare attenzione a forme e pratiche diverse, di incorporarle di farne materiale critico.
Ecco le due anime possono assolutamente coesistere, così come la sacrosanta azione di salvaguardare i posti di lavoro, ma proprio per dare respiro a queste pratiche bisogna avere il coraggio di guardare oltre, di ampliare la visione, di mettere in discussione le posizioni.
Immagine di copertina: ph. Libby Penner da Unsplash