Lo sguardo in transito di Adrian Paci

Quando nel 1992 Adrian Paci arriva in Italia con una borsa per studiare Arte e Liturgia all’Istituto Beato Angelico di Milano, non sapeva che pochi anni dopo, nel 1997, ci si sarebbe trasferito definitivamente. Né che la sua vita e la sua arte si sarebbero sviluppate in un contesto nel quale era arrivato per studiare e per colmare una necessità interiore: trovare il proprio linguaggio e sperimentare una visione ed una pratica dell’arte che nell’Albania degli anni Ottanta – quando seguiva il percorso della Accademia di Belle Arti – non erano accessibili.

Mentre in quegli anni l’esodo degli albanesi in Italia era narrato con termini epici dai media, dal cinema (Lamerica di Gianni Amelio è del 1994) e dalla retorica razzista di un partito come la Lega che cavalcava onde mediatiche per costruire consenso, Adrian Paci rifondava a Milano la propria esistenza, usando il suo percorso accademico di pittore – e la tensione verso la ricerca e della sperimentazione che si portava dentro – come benzina per vivere del proprio mestiere.

In quegli stessi anni inizia a lavorare come restauratore e parallelamente a realizzare i video che lo introdurranno immediatamente nel sistema internazionale dell’arte. Nel 1997, al suo rientro in Italia con la moglie e le due figlie per scappare da un periodo di anarchia e duri scontri tra blocchi della società albanese filma quello che diventerà Albanian stories: un full frontal di sua figlia Jola che, mentre gioca, racconta storie di guerra.

Si tratta di un episodio al quale Adrian/padre si trova accidentalmente ad assistere: la figlia sembra far emergere dall’inconscio disperanti scene di violenza mentre narra in Albanese storie immaginarie ai suoi giocattoli. Il video è una specie di ready made: nasce in una circostanza casuale ed è un video perché l’audiovisivo era in quel momento il medium più indicato per catturare questo flusso narrativo. Ma nel linguaggio filmico apparentemente semplice, Albanian stories è una testimonianza potente ed umana della Storia e si profila nello stesso tempo come critica al linguaggio manipolativo dei media.

Scrivendo di narrazione filmica di guerre civili non può non venire in mente Harun Farocki (con Andrei Ujica) ed il loro Videograms of a Revolution (1992), che racconta la fine della dittatura di Ceausescu in Romania attraverso le immagini raccolte a Bucarest nel momento stesso in cui la Storia avveniva: le immagini filmate dei manifestanti che interrompono l’ultimo discorso del dittatore e le immagini dalla televisione ufficiale romena che ritraggono invece il dittatore dal suo podio che parla e poi scappa . È interessante mettere insieme, alcuni decenni dopo, due approcci così distanti che pure ci immergono nel vivo della storia. Videograms è un meta-film, un oggetto audiovisivo ben consapevole – e che parla – del linguaggio filmico.

In Albanian stories l’approccio filmico è trasparente: noi non vediamo l’audiovisivo né siamo messi davanti alla messa in opera del suo metalinguaggio. Ma sentiamo la morte e la paura attraverso la voce e lo sguardo di una bambina. Non guardiamo la telecamera fissa, non cerchiamo il montaggio del film, non analizziamo le immagini.

Il lavoro di Adrian Paci è un flusso, dall’inizio della sua carriera internazionale e fino ad oggi, caratterizzato dalla trasparenza del linguaggio e dei processi artistici messi in atto dall’opera, a favore di una assoluta e totale aderenza all’umanità.

Con Albanian stories, Paci partecipa alla Manifesta 3 (Ljubljana, 2000) e da quel momento, la critica parla dei suoi lavori riferendosi ai linguaggi del film, delle performances e delle installazioni e, soprattutto, riferendosi al suo stato di migrante e di uomo “in transizione”. La definizione, che per primo aveva usato il curatore albanese Edi Muka negli anni Novanta, parlava di una generazione di artisti provenienti dalla stessa regione ed ha riecheggiato ogni volta che si parlasse di Adrian Paci negli anni successivi, fino alla grande retrospettiva al PAC di Milano del 2014, intitolata appunto Vite in transito.

Certo, la storia del migrante che, trapiantato in Italia, è riuscito a salire le vette del mondo dell’arte contemporanea, delinea senza dubbio un immaginario che permette di definire, circoscrivere ed archiviare facilmente il suo percorso di artista. Così come è confortevole, per esempio, parlare di artisti cubani nell’aspettativa che mettano al centro della loro pratica questioni politiche e di potere, magari riferendosi a Fidel Castro ed alla mancata democrazia a Cuba.

Ma guardando in prospettiva l’intera produzione di questo artista prolifico, ciò che sembra saltare agli occhi in maniera più evidente è come il suo sguardo sia stato in grado di raccontare gli ultimi vent’anni di trasformazioni globali dalla prospettiva dell’essere umano, con un linguaggio coerente, umanista, luminoso, empatico.

In I can’t (2010), mostra la lettera dell’ex premier Berlusconi, che lo invitava con lo stile quasi intimo ed amicale che usava nelle sue comunicazioni personali pre-elettorali, a votarlo. Con una minimale aggiunta autografa su un foglio bianco, “I can’t”, “non posso”, Paci ci parla non solo della sua condizione di esule e di immigrato (che nel 2010, racconta al Corriere, doveva rinnovare ogni anno il permesso di soggiorno e passare attraverso la questura per poter viaggiare fuori dallo spazio Schengen).

Ci parla anche di un paese alla deriva, dove il potere personale, gli interessi privati e le istituzioni pubbliche erano sovrapposte e dove si era votato, pochi mesi prima, il Ddl sicurezza che sanciva, tra le altre cose, il “reato di immigrazione clandestina”. Ed anche di una deriva globale, nello stesso periodo in cui il collega francese di Berlusconi, Sarkozy, batteva sull’immigrazione in Francia e nell’Unione Europea.

In The Column, il video del 2013, Paci ragiona sui transiti, questa volta dei beni di consumo, facendoci comprendere i meccanismi globali di compravendita delle merci. Il video ci mostra il lavoro di un gruppo di operai cinesi che, nel tempo di una traversata in mare, producono un artefatto di grande scala in marmo: un blocco che parte dalla Cina ed arriva in Europa trasformato in colonna. La stessa dinamica del pomodoro cinese che viene trasportato in Europa, trasformato e venduto concentrato come prodotto italiano.

Centro di Permanenza Temporanea (2007) ritrae un gruppo di uomini e donne che camminano insieme e salgono su una scala. Quando la macchina da presa si sposta dai dettagli di ognuno degli individui che compongono il gruppo, ci accorgiamo che uomini e donne si sono ammassati sulla scala di un aereo. Ma l’aereo non c’è, mentre loro rimangono lì, con il loro sguardo calmo e la volontà di rimanere e di aspettare che qualcosa succeda. Il video lo descrive bene il curatore cubano Gerardo Mosquera, che nel 2011 cura a Madrid una mostra dal titolo Retratos de Fayum + Adrian Paci: sin futuro visible. Mettendo in relazione i ritratti degli aristocratici romani in Egitto ed il video di Adrian Paci, Mosquera parla di dignità.

La stessa dignità sulla quale Paci ribatte ogni volta che si parla dei suoi lavori: non si tratta di parlare di storie tristi di migranti, di identità; non si tratta di raccontare una storia personale. Centro di Permanenza Temporanea parla di esseri umani costretti al movimento nel mondo delle relazioni di potere tra forze economiche e potenze politiche globali: dezplazados, migranti, viaggiatori, che ostinatamente si muovono perché non possono fare altro. Ed aspettano: di arrivare, di poter parlare, aspettano una firma, un permesso di soggiorno. Ma la loro calma, la dignità, la volontà sono il vero punto: sono più forti di qualsiasi burocrate, di qualsiasi muro e di qualsiasi provvedimento violento o razzista. “Sono su una scala e aspettano non solo l’ascesa, ma addirittura di volare” dice Mosquera.

Così Turn on, del 2004, che nel 2005 è stato alla Biennale di Venezia, Adrian Paci ritrae gli sguardi trasparenti e calmi dei disoccupati che aspettano di lavorare, seduti su una scalinata di Shkodra, città natale dell’artista, e che lentamente accendono delle lampade a petrolio accanto a loro. Il video è un affresco vivente, nel quale siamo in grado di capire il passare del tempo (la giornata di attesa del lavoro che non viene), i pensieri intimi (i primi piani degli sguardi e dei visi di queste persone in attesa), la forza che si basa sulla dignità di questi antieroi. Guardando il video, lo spettatore si trova a convivere con questi disoccupati. Condivide una esperienza perché nulla realmente accade se non il cambio della luce, che segna la giornata che è passata.

Su queste qualità degli esseri umani in movimento si concentra Adrian Paci: la migrazione non è un fatto volontario, è un fatto necessario. Ciò che dobbiamo imparare a cogliere non è solo la difficoltà delle storie che hanno originato il viaggio, ma la forza della volontà e lo sguardo senza pregiudizi di chi ha viaggiato. Uno sguardo che parla anche delle esperienze e della vita in transito certamente, ma soprattutto parla di noi in una maniera più distaccata e oggettiva di quanto non faremmo noi stessi. E’ questa la prerogativa di chi ha vissuto una vita “in between” ed è stato costretto a negoziare la propria identità per abbracciarne un altra, che tuttavia non incarnerà mai completamente.

La questione dello sguardo è talmente centrale nel lavoro di Adrian Paci che riguarda non solo la modalità di guardare e percepire il mondo, ma anche il linguaggio dell’arte stesso. Il cammino che lo portò 25 anni fa in Italia per studiare, era una ricerca di una forma espressiva che fosse sua personale, e che uscisse dalla rigidità tecniche che aveva imparato studiando all’Accademia di Tirana (un’accademia, peraltro, fondata negli anni Sessanta in un contesto artistico influenzato da studenti che sperano formati in Italia neglianni Trenta: nel fondo una rigidità non così diversa da quella proposta dalle accademie italiane). “Guardare l’immagine per cercare di trovare qualcosa oltre l’immagine”, come racconta lui stesso, era la prima ragione per la quale gli artisti che studiavano i classici dell’arte Occidentale sui libri volevano viaggiare: per vederli dal vivo. E poi anche per avere accesso diretto a tutta quell’arte del Novecento che dalle Avanguardie in poi avevano mostrato una via “oltre l’immagine”, oltre lo stile ed oltre le tecniche.

Dopo il viaggio di due anni della grande retrospettiva del suo lavoro, che hanno portato tra il 2013 ed il 2015 vent’anni di opere da Parigi a Milano, da Göteborg a Montreal, cosa bisogna aspettarsi oggi da un artista che ha esposto i suoi lavori nelle manifestazioni internazionali più importanti?
 La risposta è continuare a guardare, ed avere la libertà di fare cose che siano nel fondo significative per l’essere umano e non più solo in termini di contesto dell’arte. Nel 2015, l’artista ha inaugurato a Shkodra Art House, una antica casa di famiglia rinnovata e trasformata per essere anche il quartier generale di un programma di educazione culturale, civica ed etica attraverso l’arte contemporanea. Archivio delle opere del padre di Adrian Paci, un artista ed educatore che lo aveva accolto da piccolo nella pratica artistica, la casa è anche uno statement. Mentre la città, come tutta l’Albania, è in fase di trasformazione radicale ad opera dell’industria delle costruzioni, la Art House è uno spazio che rifiuta la logica della trasformazione radicale degli spazi urbani in nome della “modernità” dei palazzinari e si propone come spazio in cui avviene una mediazione tra la storia e le istanze delle culture contemporanee internazionali.