Come sta l’università italiana?
Parlando di com’è l’università oggi e di come dovrebbe essere nei prossimi vent’anni non possiamo non soffermarci sullo specifico stato dell’università in Italia. […]
Innanzitutto, che tipo di sistema universitario è quello italiano? È forse un sistema come quello inglese, dove per secoli ci sono state solo due università, Oxford e Cambridge, e dove ancora oggi quelle due università tendono a superare tutte le altre per risorse e prestigio? O è un sistema come quello degli Stati Uniti, straordinariamente ampio ed eterogeneo, con al vertice un club di università tendenzialmente private e molto ricche? No, il sistema italiano è diverso: per motivi storici che in questa sede non possiamo ricordare, l’università italiana è un sistema più simile a quello tedesco, ovvero un sistema con sedi universitarie piuttosto omogenee tra loro, sparse su quasi tutto il territorio nazionale, e soprattutto senza università che svettino in modo eclatante sulle altre per risorse o prestigio. È un problema avere un sistema che, come vedremo, è complessivamente di buona qualità, ma senza università “star”?
La nostra impressione è che un sistema come quello italiano sia considerato dai media e dai politici un problema solo perché viviamo in un periodo storico ossessionato dalla competizione, dalle classifiche e dalla retorica dell’eccellenza. Non c’è nulla di male, infatti, se un sistema universitario ha, per motivi storici, le sue Harvard, Princeton e Oxford: sono istituzioni di alto livello che molto hanno fatto per la conoscenza e per i rispettivi paesi. Tuttavia, nel giudicare un sistema – in questo caso universitario, ma potrebbe essere quello sanitario o delle forze dell’ordine – dobbiamo chiederci se, come sistema, svolge il suo lavoro in maniera adeguata.
Nel caso di un sistema sanitario, per esempio, valuteremmo lo stato di salute dei cittadini, analizzando dati come la durata media della vita, l’incidenza di vari tipi di malattie ecc., confrontando poi i risultati con quelli di altri paesi paragonabili al nostro. Sarebbe un aspetto secondario sapere se il sistema al suo interno ha o meno ospedali “star” come, per fare un esempio, il Mount Sinai di New York: quello che conta innanzitutto, infatti, sono le prestazioni generali di un sistema. Anzi, è molto più importante lavorare affinché la qualità di tutti gli ospedali sia buona, perché solo in questo modo la salute di tutti i cittadini – e non solo dei pochi fortunati in grado di accedere all’eventuale ospedale “star” – sarebbe tutelata.
Sarebbe semplice buon senso seguire lo stesso metodo parlando di sistema universitario, ma purtroppo non è così che viene condotto in Italia il dibattito sull’università: dominano la scena, infatti, le classifiche di singole università e non di sistemi universitari. Nelle seconde, l’Italia per produzione scientifica si colloca tranquillamente tra i primi dieci paesi al mondo, un risultato positivo che diventa quasi straordinario se si considera il bassissimo livello di finanziamento dell’università italiana; un dato confermato anche di recente dalla Commissione Europea, che ha definito il sistema della ricerca pubblica italiana «forte nonostante un complessivo sottofinanziamento in ricerca e innovazione».
Nelle classifiche di singole università, invece, vengono favoriti i sistemi universitari che per motivi storici hanno università “star”, in primis gli Stati Uniti e l’Inghilterra. È difficile prendere nella dovuta considerazione questo semplice dato di fatto?
Evidentemente sì, a sentire media e politici: da anni, infatti, a ogni pubblicazione di classifiche di università si continua a rinfacciare all’università italiana l’assenza di università “star”.
Questo non solo tradisce un’ignoranza della storia del nostro paese, che non si può rinnegare da un giorno all’altro, ma anche una certa dose di malafede, dal momento che, tanto per fare un esempio, le spese operative della sola Harvard sono pari quasi alla metà del finanziamento ordinario per l’intera università italiana. Lo sanno media e politici che, secondo l’esperta Ellen Hazelkorn, per entrare nelle prime cento posizioni delle classifiche un’università ha bisogno di un budget pari a circa 1,5 miliardi di euro? Quanto è probabile che ciò capiti in Italia se per l’intero sistema universitario nazionale spendiamo appena 6,5 miliardi contro i 26 della Germania (dato 2015, fonte MIUR)?
Come termine di confronto, si pensi che le spese operative di due atenei prestigiosi come i Politecnici di Torino e Milano sono pari rispettivamente a 208 e a 422 milioni di euro: in Svizzera, invece, le spese operative dei Politecnici di Losanna (EPFL) e Zurigo (ETH) sono rispettivamente pari a circa 883 e 1464 milioni di euro (dati 2015, tratti dai relativi bilanci). Oppure lo sanno media e politici che sulle classifiche di università pesano anche aspetti come la presenza o meno di residenze universitarie, criterio che penalizza pesantemente l’Italia, fanalino di coda in Europa per quello che riguarda il diritto allo studio (residenze universitarie, borse di studio, prestiti agevolati e più in generale servizi allo studente)?
E, comunque, anche prendendo per buone le classifiche di università, il fatto che per esempio nel 2014 ventuno università italiane fossero tra le prime 500 università al mondo significa «che l’università italiana – nonostante una spesa rapportata al PIL che è la penultima in Europa – vede una parte non piccola delle sue università collocarsi nel top 3% di tutte le università del mondo, un risultato che poche nazioni possono vantare».
Avendo verificato che il sistema universitario italiano è, nonostante il sottofinanziamento, del tutto degno di un paese del rango dell’Italia, prendiamo in considerazione un’altra critica spesso avanzata dai media e, soprattutto, dalla politica: quella secondo cui in Italia ci sarebbero troppe università. Anche in questo caso i dati dicono il contrario: se guardiamo, infatti, al numero di università e di altri istituti di istruzione terziaria per milione di abitante, vediamo che l’Italia, anche contando le università telematiche, con un numero pari a 1,6 viene dopo il Regno Unito (2,3), l’Olanda (3,4), la Germania (3,9) e molto dopo la Francia (8,4) e gli Stati Uniti (14,5, oppure 8,8 considerando le sole università quadriennali).
Un’altra critica che si sente spesso ripetere è che in Italia l’università costerebbe troppo poco agli studenti: per fare un esempio tra i tanti, l’economista Francesco Giavazzi scriveva sul “Corriere della Sera” che «non possiamo più permetterci un’università quasi gratuita», posizione che ha poi sostenuto anche in altre sedi. Tuttavia, tanto l’OCSE che la Commissione Europea ci dicono tutt’altro: la tasse universitarie italiane, infatti, collocano il nostro paese al terzo posto in Europa, dopo Inghilterra e Olanda. Un dato di fatto che, abbinato alla sostanziale assenza di una politica per il diritto allo studio, rende l’università italiana tra le meno accessibili del continente, ovvero tra le più inique.
Inoltre, sempre nell’editoriale del 2010 ricordato in precedenza, il professor Giavazzi affermava perentoriamente – come fosse un fatto autoevidente – che in Italia c’erano «troppi professori». Tuttavia, l’OCSE si premura di smentire anche questa critica, dal momento che solo altri quattro paesi OCSE (su 34) hanno un rapporto studenti/docenti peggiore di quello italiano, e questo nonostante un numero di studenti universitari molto inferiore a quello che dovrebbe essere, come vedremo più avanti.
I relativamente pochi professori italiani sono forse pagati in maniera esorbitante? Nel 2012 è circolata sui giornali la notizia di stipendi da 13.000 euro al mese: si trattava naturalmente di una falsa notizia. I dati reali sono radicalmente diversi, come sa chiunque conosca un minimo l’università italiana. O forse i professori italiani lavorano poco? Sulla ricerca abbiamo già dimostrato una produttività tra le migliori al mondo: ma forse i professori insegnano poco? Per legge i professori insegnano un minimo di 120 ore all’anno, a cui si sommano ovviamente la preparazione delle lezioni, gli esami (magari fatti a centinaia di studenti, viste le dimensioni di molti corsi), le tesi di laurea e il ricevimento studenti. Si tratta di una mole di lavoro che, a seconda delle dimensioni dei corsi (chi scrive, per esempio, è titolare di due corsi, uno da 250 studenti e l’altro da 160), è decisamente significativa.
Una critica che è tornata alla ribalta nell’autunno 2016 è stata quella relativa al nepotismo. Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, è intervenuto più volte sul tema, affermando, poco convincentemente, che il nepotismo è la causa principale della cosiddetta fuga dei cervelli, ovvero delle migliaia di giovani ricercatori che sono costretti ad andare all’estero per trovare un lavoro adeguato alla loro preparazione. Il primo a parlare con grande rilievo di nepotismo all’università era stato l’economista Roberto Perotti in un libro del 2008, L’università truccata, che aveva aperto un ciclo di critiche all’università italiana in pressoché perfetta coincidenza temporale con i primi grandi tagli del finanziamento pubblico. Al tema i grandi giornali dedicarono ripetuti articoli, soprattutto nei mesi precedenti all’approvazione della legge di riforma dell’università voluta dal ministro Gelmini – una legge presentata come la soluzione dei problemi dell’università, tra cui, appunto, il nepotismo. È tuttavia evidente che nel 2008, nel 2010 e di nuovo oggi alcuni casi reali, senza dubbio avvenuti soprattutto in alcune sedi universitarie e soprattutto in alcuni settori disciplinari, siano stati utilizzati per denigrare strumentalmente un’intera categoria.
Non sappiamo se i casi di nepotismo siano il 2,3% del totale, come ha affermato il rettore dell’università La Sapienza di Roma, Eugenio Gaudio, citando uno studio dell’università di Chicago, ma quel che è certo è che il problema è molto più complesso di quanto non abbiano fatto capire i media. Non solo perché dovremmo interrogarci su quale sia la situazione in altri ambiti lavorativi in Italia, sia pubblici sia privati, ma anche perché è del tutto naturale che esista una certa fisiologica propensione a seguire la professione del padre o della madre per semplice esposizione a un determinato ambiente culturale e sociale.
In altre parole, quello che conta non è scandalizzarsi, tanto per fare un esempio, che il figlio del grande economista americano John Kenneth Galbraith sia anche lui un economista, James K. Galbraith, quanto piuttosto preoccuparsi che al momento dell’assunzione si valuti solo l’effettivo valore dei candidati e non il loro cognome.
Un’altra critica riguarda il presunto distacco dell’università italiana dalle esigenze dell’economia. La realtà smentisce anche questa critica: i settori tecnico-scientifici dell’università italiana lavorano con l’industria sia con maggior libertà delle principali università americane (che per loro regole interne sono molto meno libere delle università italiane di fare ricerca su commissione) sia con un successo economico quanto meno paragonabile, se non superiore, a quello di atenei del livello del MIT e di Berkeley.
Ma se molte critiche che hanno dominato il dibattito pubblico italiano in questi anni sono – alla prova dei fatti – infondate, quali sono i veri limiti del sistema universitario italiano?
Due limiti li abbiamo già visti: relativamente pochi professori in relazione al numero di studenti (come indicato dal troppo elevato rapporto studenti/docenti, tra i peggiori dell’OCSE) e un finanziamento pubblico straordinariamente basso (l’Italia è al penultimo posto tra i paesi OCSE).
Non abbiamo però ancora visto uno dei dati più preoccupanti in assoluto per lo stato dell’università italiana e per il futuro del nostro paese: tra i paesi sviluppati l’Italia è uno di quelli con meno laureati in assoluto. Se nei paesi OCSE la percentuale media di laureati tra le persone in età lavorativa (25-64 anni) è pari al 33%, in Italia siamo al 17%, il valore più basso tra i 34 paesi dell’OCSE, a pari merito con la Turchia. È vero che l’Italia sconta un ritardo educativo storico, come è evidenziato dalla bassissima percentuale di laureati nella fascia di età 55-64 anni, il 12% (peggio di noi solo la Turchia, con il 10%). Ma il dato veramente preoccupante è che anche tra i giovani, ovvero nella fascia di età 25-34 anni, l’Italia è al 34° posto su 34 paesi, con appena il 24% di laureati, contro una media OCSE del 41%.
E guardando al 2020, l’Italia si è data l’obiettivo più basso di tutti i paesi dell’Unione Europea, ovvero di arrivare ad appena il 26-27% di laureati nella fascia di età 30-34 anni. Anche a livello del dottorato di ricerca, il più alto grado di istruzione, l’Italia si conferma al terz’ultimo posto in Europa per numero di dottorandi in rapporto alla popolazione, davanti solo a Spagna e Malta; i dottorandi in Germania sono il 617% più che in Italia (sempre in rapporto alla popolazione), nel Regno Unito il 250% in più e in Francia il 183%. Non solo: i dottorandi in Italia sono pagati quasi la metà che in Francia, un terzo che in Belgio, un quarto dei tedeschi e addirittura un quinto degli svizzeri. […]
Purtroppo a partire dall’agosto 2008 ancor prima che esplodesse la crisi finanziaria, viene realizzato il più marcato definanziamento dell’università della storia della Repubblica italiana. Con la legge 133 del 2008, il fondo di finanziamento ordinario dell’università viene ridotto «di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013».
Negli anni successivi, gli stipendi dei professori universitari verranno bloccati, i già esigui fondi per la ricerca detti PRIN verranno azzerati per due anni consecutivi (2013 e 2014), le fortissime restrizioni pensate per la pubblica amministrazione (relative per esempio a formazione, missioni e acquisti) verranno applicate anche all’università e, decisione forse più grave di tutte, verrà in larga parte impedito alle università di rimpiazzare le migliaia di professori della generazione del “baby boom” andati in pensione.
Gli effetti di quest’ultima decisione sono impressionanti: il numero dei docenti di ruolo dal picco del 2008 scende di 11.000 unità, da 63.000 a 52.000, una decrescita del 18% che fa schizzare in alto il già elevato rapporto studenti/docenti (nonostante la contestuale decrescita del numero di studenti). Secondo alcune stime, inoltre, 12.000 giovani ricercatori – che potrebbero diventare trentamila entro il 2020 – sono andati a lavorare all’estero, fuga che, sommata a quella di molti laureati, rappresenta per il nostro paese un danno economico stimato in ben 23 miliardi di euro; in altre parole, l’Italia – nel pieno della crisi economica più grave dall’Unità ad oggi – sta sovvenzionando Francia, Germania e Regno Unito, le principali destinazioni dei nostri laureati e dottori di ricerca.
Ma non è tutto: la compressione del sistema universitario nazionale non è avvenuta in modo uniforme. In questi anni, infatti, una quota crescente del fondo di funzionamento ordinario, definita premiale, viene assegnata secondo criteri decisi di anno in anno dal Ministero dell’Università. […]
In particolare le università del Sud – già sfavorite dal contesto economico – si sono impoverite ancora di più, fino a farne paventare addirittura la chiusura, mentre tra le discipline soffrono in maniera particolare le aree relative alla ex facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, in particolare, la 04-geologia (in Italia!).
Riguardo ai posti di dottorato di ricerca, già un punto debole dell’Italia, gli ultimi dieci anni sono stati tragici: «In dieci anni i posti di dottorato si sono ridotti del 44,5%, passando dai 15.733 del 2006 agli 8737 del 2016, con due crolli nel 2008, quando c’è stato un taglio per effetto dei tagli lineari al Fondo di funzionamento ordinario tra il 20 e il 40%, che comportò il -16% di Borse nel biennio 2008-2009, e nel 2014, quando le linee guida per l’accreditamento del Miur posero il vincolo del 75% di posti coperti da borsa, provocando un ulteriore taglio del 18%».
È certamente vero che produrre troppi dottori di ricerca rischia di generare una vasta fascia di precariato accademico, come è successo negli Stati Uniti in questi ultimi vent’anni; ma è possibile fare una scelta così draconiana senza prima effettuare un’ampia discussione pubblica sui bisogni del nostro paese? Ed è davvero nell’interesse del paese formare figure così avanzate, per poi assorbirne in prospettiva appena il 6,5%, quando invece, come abbiamo visto, ci sarebbe un enorme bisogno di nuovi docenti prima per fermare l’emorragia di questi ultimi anni e poi per avvicinare il sistema universitario italiano a quello dei paesi più avanzati?
Più in generale, qual è la ratio di una politica universitaria così apparentemente controintuitiva? E perché i quattro governi, nominalmente piuttosto diversi tra loro, che si sono succeduti dal 2008 a oggi, hanno tutti sostanzialmente realizzato la stessa politica universitaria?
Non sapendo rispondere, per mancanza di elementi certi, alla seconda domanda, concentriamoci sulla prima. A nostro avviso l’unica spiegazione razionale della politica universitaria dal 2008 a oggi è che si voglia trasformare radicalmente il sistema universitario nazionale: da un sistema diffuso su quasi tutto il territorio nazionale a un sistema più piccolo (meno università, meno professori, meno studenti, meno risorse complessive) con solo pochi poli “di eccellenza” ben finanziati, tendenzialmente al Nord, e il resto composto da università di serie B, concentrate solo sull’insegnamento, insomma, diplomifici.
Perché meno studenti, ovvero meno laureati, che è anche la direzione verso la quale hanno puntato innumerevoli articoli sui giornali? Evidentemente perché si ritiene che il sistema produttivo italiano non ne abbia bisogno: evidentemente, nonostante il molto parlare di economia della conoscenza e, più di recente, di industria 4.0, il modello produttivo italiano deve rimanere basato, ora più che mai, sui bassi salari e su un tasso di tecnologia medio-basso. In questa visione, il sistema universitario italiano è, insomma, sovraqualificato. Va ridotto.
A parte la desiderabilità o meno per l’Italia di un futuro di questo tipo – anche solo produttivo, lasciando stare gli altri aspetti, come quelli civili e culturali – ci chiediamo: ma quando e in quale sede questa visione è stata apertamente discussa e democraticamente approvata? Ci risulta che ciò non sia mai avvenuto. E questo ci sembra inaccettabile.
Questa discussione pubblica deve quindi avvenire – e anche rapidamente, prima che la situazione dell’università, già gravissima, diventi disperata. Il futuro dell’università, infatti, essendo strettamente legato al futuro del nostro paese, riguarda tutti.
Pubblichiamo un estratto da Università Futura. Tra democrazia e bit di Juan Carlos De Martin, Codice Edizioni.